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Gianni Marcantoni – Ammessi al paesaggio (Calibano Editore)- 2019; Pagg. 284; Prezzo: 15,00 euro.
La nascita dell’essere umano rimediabile tra le mura domestiche (tipica del tempo che fu, di quando l’umiltà del nucleo familiare veniva considerata propositiva a dir poco) purtroppo si complica all’inverosimile, sortendo un dramma lacerante… un fatto tragico, da esporre come tanti altri che caratterizzarono la realtà del Paese negli anni ’30; sotto l’etereo distante, colmabile però immaginando d’avere un potere come quello di espandersi usufruendo del senso del tatto, e raccogliere così la persona cara.
“Non chiedo di essere perdonato, e non chiedo nemmeno di essere tanto amato. Non credo che chiedere mi sia mai stato realmente concesso”.
Marcantoni agisce accompagnato dai suoi dolori ossei, sollevato dalle cose che tacendo ridestano inutili, leggiadri movimenti… già, il tempo di muoversi piano e il senso di disorientamento occupa la sua memoria, come a rendersi incapace di dipendere da una persona alla fin fine.
Il poeta focalizza il sempre di una passione, consapevole di un’occasione non colta, come quella di esistere difettando liberamente, in solitudine, fino a colmare il senso di vuoto col suo essere vacante, senza alterare l’umanità a livello spirituale.
L’integrazione si riferisce dunque a dei soggetti che non ci sono più, mortalmente aggrediti, mai ripresisi dalla superbia e dalle ingiustizie, e cioè da gesti realizzati a scapito di anime innocenti, che non sapevano cosa volesse dire reagire, e addirittura anche per rimediare alle proprie debolezze… ebbene, il desiderio di raccoglierle in un contesto prettamente territoriale significherebbe farle rivivere, ma stavolta dignitosamente, allo scopo di recuperare l’opportunità d’esprimersi, e ricavare naturalmente i requisiti per esistere, potendo finalmente crescere nel rispetto delle regole, piacevole purché quest’ultime siano chiare.
Per Marcantoni questo darci alla luce andrebbe salvato, perché è conforme all’unica forma di preghiera in circolazione oggigiorno, ciononostante il poeta s’attribuisce delle colpe, non volendo immaginare che una benché minima richiesta da parte sua passi in rassegna.
Un indizio esistenziale s’illumina in particolare, e lo si può scorgere dall’alto verso il basso, essendo distanti, incapaci di definirci col buonsenso nel nome di un poeta come Gianni, che comunque riesce a intuire la quotidianità in un cenno d’intesa.
Naturale e silenziosa in alternativa, la gustosa provocazione vitale non si fa assorbire dalla sapienza dell’autore che assiste in caduta libera agli eventi che lo formano, per poi brillare semmai grazie al tempo dell’amore, da personificare quando le luci oggettivamente si spengono.
L’uomo incanta fortissimamente, e cioè attualmente, essendo stato spremuto dalle illusioni, consapevole però di certi momenti che torneranno affinché ci si possa muovere rinfrescando così delle buone nuove dal principio.
Secondo Marcantoni il genere umano attende una svolta privo di uno slancio emotivo, un po’ come a volere osservare degl’insetti intenti a stabilirsi in un determinata collocazione con una fragilità comprovabile.
Eppure Gianni dichiara che non intende fermarsi ancor prima di realizzare qualcosa, alludendo alla sorte purché essa accenni un volo in conclusione, in un tempo svanito nel suo animo senza poi riapparire, deliziando e misurando così uno e più lati oscuri. Il maltempo risulta mostruoso, bucato da tenebre in movimento, profonde, ciononostante la linea tra l’aldilà e l’aldiquà non smette d’incantare, seducendo il poeta che la desidererebbe da perfetto egoista, imprigionata nelle stesse condizioni di un tenero volatile, in un valore assoluto.
La percezione viene meno essendo curiosi di sapere come si generi un effetto sonoro, talmente moderno da sollevare quest’umanità che si deve ritenere immortale, ma assoggettata a degl’indizi marcabili da strumenti perlopiù inaccessibili.
A dire il vero la desolazione è lacrimosa, arreca splendore alle anime che si distaccano definitivamente da corpi in attesa di veritieri accecamenti, quelli che schiariscono alti e bassi d’umore svalutando persino i raggi solari.
Il tacere è proporzionato all’unica testimonianza di vita atta a disgregare principalmente gli esponenti di cotanto mistero che Marcantoni armonizza con parole imbattibili, che accolgono l’autore stesso a tal punto da scorgere serenamente la fine di una vita.
Siamo forse senza una divinità da pregare, e quindi pronti a inabissarci dentro le illusioni, socchiusi i rubinetti alle fonti di vita, dove si va a rinfrescarsi una volta finito di giocare a stabilire un vincitore e un perdente, assistendo al tempo che scorre.
Un fare notturno, anonimo, circonda l’esistenza, e la solitudine avanza tra boccioli di sentimenti da sfiorare, possedendo ambiguamente il senso del tatto, a cui si accede sfidandoci ripetutamente a una caccia al tesoro.
L’illuminazione più incomprensibile viene segnata difatti dal più semplice gesto d’affetto, con la fine di un giorno che così meraviglia tracciando vie pericolose, intensificando soluzioni penetranti, resistenti al tempo.
Dopo si aggiunge l’umanità, il fatto di sedare gl’istinti ogni volta quantomeno per tutelare ciò che di solito sappiamo offrire, accerchiando una sorta di principio d’allarme come a far festa e riflettere infine sulle morti altrui.
Traspare la perduranza di un’asprezza gocciolante sul genere umano, ricorre della struggente rigidità alla lettura di questi versi come a stimare l’anonimato di svariati soggetti infranti.
“Basta un silenzio a risvegliare queste effimere danze, basta questo passo per dimenticare da quale direzione io sia arrivato, e per conto di chi altro me ne andrò”.
Colui che scrive qui sembra durare spaziando appieno in un respiro che manca, riaccendendo mute osservazioni al cospetto di parole spodestate dalla loro stessa visibilità.
Nel frattempo, pian piano ogni strumento diventa un fremito, un fare sistematico accerchiato dalla natura saggia, fittamente riconducibile a dei peccati oramai ininfluenti.
Per risolvere dei problemi occorre andare oltre, in un luogo incredibile, sospinti da una ragione sovrumana per intendere la morte e alleviarla.
La speranza incornicia l’inimmaginabile, l’idea di sconvolgere con viva ingenuità un gigante sbrogliandogli le viscere.
“Un terrore ci possiede da troppi secoli fin da dentro le oscure caverne, e le tue sicurezze a poco sono bastate in tutto questo tempo per farci esistere davvero come uomini. Ma forse l'uomo guardando in alto - sempre perduto in sé stesso ha solo sentito l'eco della propria voce, e non invero il sole, non i sentieri finiti in un fuoco mancino, non i continui passi che hanno invertito rotta, tornando alle mezze facce delle ampolle, seppellite fra la neve-lingue-rudimentali, e sciolte in una fiala di raggelato succo esistenziale”.
Il terrorismo divampa in noi da tempo immemore; quindi è probabile che l’umanità creandosi grandi aspettative non abbia fatto altro che accusare un senso di vuoto, tale da rimanere incantata dal riverbero di richieste che non provengono mai dall’esterno, con un vanto pari alla possibilità di spegnere la più naturale delle fonti d’energia.
Si percepisce l’intento di comporre parole, silenziosamente, in modo puramente manuale, determinando così un peso, e specie sugli affetti, per niente passeggeri né falsificabili e tantomeno portatori di seduzione; al tramonto di un vissuto ch’eleva la sensazione di far tutto tranne che rumoreggiare.
Il mondo, sputtanato, centra appieno i cuori della gente, ossia di tutti quelli che di solito necessitano di scegliere l’insieme da supportare senza suscitare la benché minima rivoluzione… effettivamente a forza di discutere sul destino del pianeta Terra ci stiamo oscurando, d’illuminante resta l’inasprimento della normalità che per giunta manca di compattezza.
“Ma nulla regna per l’uomo che tanto ama salvarsi…”.
Indumenti consumati si pensa quasi di punire alla fine di un vissuto, mentre delle aspettative vengono ingoiate con un’angoscia tale da respirare mantenendo gli occhi aperti all’etereo disperso a causa di un pianeta che non ci risparmia la memoria, in mancanza di attività colmanti gli attimi all’anima; non concependo i misteri del buongusto, essendo conficcati magari in residenze oscure dacché momentanee.
Marcantoni predilige la verità poetando argomentazioni senza la pretesa dell’immortalità, in un volo quindi limitato dalla realtà e i suoi strumenti di cessazione propria… ben lungi da un termine di possesso: una dichiarazione da fare magari distaccandosi dall’immaginario, specie se quest’ultimo pulsa per lo sguardo da ricambiare con l’amore che spesso e volentieri si percepisce nell’assenza di chi ci sta a cuore.
Ecco che spesso e volentieri provando amore cogliamo ingiustizie fuori dal comune…!
Si sta da soli per un briciolo di tempo che può impadronirsi spiritualmente di un essere umano sequestrandolo, costringendolo a scrutare l’incolta immaterialità.
Sta di fatto che il poeta si esprime, che la sensibilità conta maggiormente quando qualcosa c’intimorisce. La purezza si manifesta appieno per spirito d’unione.
Una massa popolare strabordante ma che teme di rifiorire non riesce a respirare a pieni polmoni in effetti, e cioè in mancanza d’ideali.
Ci si rassegna a mirare il destino che, alquanto precario, fuoriesce mestamente dopo averlo intascato mortalmente, dimorando in una forma di tacito abbandonamento.
“E tu uomo di bassa statura i versi non ti alzeranno, tu uomo di alta statura, i versi non ti piegheranno. Possono solo condannarti talvolta, quando come chiodi entrano nella testa e impediscono il movimento delle labbra; allora sarai nel paesaggio infinito, sarai allora morto per colpa dei versi che ti avranno tradito”.
Con la poesia secondo Marcantoni si accede alla svalutazione di soggetti protesi alla morte, come a spaziare in un colpo d’occhio, ciecamente. I sentimenti vengono calati in una condizione di panico puro, a conferma che la quiete si è tramutata globalmente in uno storico malessere.
La percezione olfattiva si allarga a seguito di mostriciattoli aventi talmente sete da avvelenarsi, privi di destinazione.
Una terminologia affettiva si esaurirebbe da sé alla luce di un nuovo giorno, legnosa e ubriacante, e difatti la memoria s’intensifica evidenziando leggerissime lesioni su forme sporcate di quiete.
Rimangono cose inculcate, oscure a primo impatto, che inducono agli stati di fermo la meraviglia tendente alla fisicità dell’individuo da immortalare.
La pubblicazione di piccole storie private accentua il principio d’assenza, che si sviluppa contribuendo all’aria che tira, che si stanca.
Il tempo dunque va ammazzato esclusivamente in chiave letteraria, riaprendo la voglia di vivere alle persone prossime alla cecità, a degl’involucri d’eternità.
Ogni cosa si pone sullo stesso piano, sinceramente occorre pazientare per mutare in positivo, e oggettivamente poco importa farsi sentire.
Successivamente ai corsi storici, del tutto personali, nulla più si delinea per degli amori acclarati, trafitti da schegge evidenti, derivanti da contenitori preziosamente ambigui.
Il poeta ingoia qualsiasi aspetto dell’amore che può provare per una persona, eccetto quella voglia di contemplare il panorama mondiale, che va riqualificata, più forte del riserbo.
Niente si oscura come l’umanità sul punto d’amare, col vuoto che avanza sporcando indumenti a prova di sentimento.
“Ma cosa hai costruito nel tuo tempo? E quanto ci hai messo? Era davvero così indispensabile tutto questo? La vita è fatta soprattutto di cose inutili, di meccaniche, e di ritorni, ed è quanto tu non mi avevi detto (né io te lo avevo mai fatto capire)”.
Un insieme di suoni inonda un corpo estraneo se con l’emotività non si concepiscono frantumazioni, le diversità che si accentuano con un fare crudele, estremo.
Un amore circola nel poeta, inesauribile, ma è con la reciprocità che si apre alla spontaneità dei gesti, alla quale si può rinunciare, preferendo l’oscurità che l’immenso opportunismo alimenta.
La natura viene inquinata di continuo, e, imperturbabile, riproduce delle colpe per esistenze da insaporire piangendoci sopra, sul serio, senza far rumore.
L’armonia appartiene alle idee che cambiano evidentemente, come a voler prendere in giro l’anima, con quella solenne quiete successiva alle tempeste. Il silenzio rappresenta volgari intrighi, inducendo personalmente a proiettare il pensiero sugli sviluppi di ogni singolo respiro… la più deplorevole delle azioni!
In effetti veniamo a mancare sul serio una volta che le illusioni diventano realtà inequivocabili, scatenando guerre di un desiderio improponibile, come quello di perdurare in eterno.
La vita si conclude in una maniera del tutto convincente, sublime, a dimostrazione di come l’integrazione terrena non presupponga la considerazione dell’essere.
“Tutto è stato stemperato nell'avanzo carpito dal seme di una betulla nata dai sospiri del mondo, quel mondo che amava ascoltare i racconti fantasiosi dei pellegrini di una volta, dei cavalieri morti sulle strade del sale. Ma non restano ormai più ore da centellinare, così giriamo solitari, simili a due fiumi che combattono ogni giorno per arrivare al mare, che navigheranno le rotte infuocate di un sogno essenziale, prosciugato in un giaciglio colmo di consuetudini momentanee”.
Il tormento spirituale si riferisce alla carenza di senso per scalare asperità ragionevoli, che si definiscono maggiormente col passare del tempo.
La sincerità, alquanto residuale, prova qui a riformarsi senza far rumore, mentre giochi di luce peccano per principio.
Il corso degli eventi non appartiene alla memoria, e rafforza aspettative nel fisico da erigere per dei confronti che si sviluppano fino ad augurare di confermarli seppur in maniera precaria.
“E sono troppe le vite tormentate, troppe le vite naufragate, disintegrate, occultate nelle isolate galere; riprendiamo allora il nostro scettro, il mondo era nostro - nostro fin da dentro al grembo materno. E non ancora un canto spaesato, non ancora una maglietta indelebile con i nostri eroi stampati tra le glorie, o questa ridicola platea sbilenca sopra cui il falso uomo astuto è annegato!”.
Tecnicamente, passione e competenza poetica sortiscono l’energia ritmica alla forma del testo, rigorosa e raffinata, mentre l’ambizione la si rileva da una ricerca a ritroso, che si rivela a tratti di una lezione da dare.
Il pensiero sembra proprio dominare la complessità espositiva, cosicché permane la parola letteraria. L’amarezza intimistica è di una scrittura gergale, si rilassa specialmente tra i versi dei poemetti, come a pregustare una discesa negli abissi mentali. La costruzione della struttura è dura, cupa, carica di tensione, come se ci volesse a tal proposito una fisicità intrisa di sacralità.
V’è un dire poetico che non ammette finzioni, secondo un autore garbato e malinconico, solito agli attraversamenti esistenziali, inseguito da una verità, un’illuminazione più forte di ogni altra, incalzante.
Un emblematico coacervo di rifiuti sulla presenza umana corrode l’emozione.
Il lettore ha modo di appropriarsi del valore profondo della parola, come un nutrimento da curare e controllare, col ron ron esistenziale, un elemento necessario per cogliere flash d’ispirazione e far scattare delle occasioni.
Leggendo è come se ti ritrovassi incagliato tra sentimenti profondi e ragioni inconfessabili, tra storie e destini che chiedono d’essere ascoltati, grazie a un autore che mantiene una coerenza con grande lirismo, essendo questi lento e avvolgente, e assumendo un tono intimo, malinconico, dolente… ma anche fiero e arrabbiato.
Il poeta dosa bene follie e malinconie in una data ambientazione, segno di come s’impara a dare il giusto peso alle parole… versi dunque d’impianto teatrale, evocativi come un’opera d’arte, di contorsione avanguardistica.
Testo teso, che non dà tregua ai significati di cui n’è denso, privi di compiacimento… mai banale.
Qui non si cade nei sentimentalismi, alla luce di una calibrata misura dei versi, in funzione catartica e salvifica, e quindi di sottigliezze psicologiche, a fronte di un universo cupo, claustrofobico (ma molto introspettivo)… addirittura sembra che si possano appurare dei diorami assemblati per far capire a cosa si va incontro.
Dalla cura del dettaglio linguistico e poetico si determina la presa di posizione su temi certi.
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VINCENZO CALO'