ALBERTO PELLEGATTA: “L’OMBRA DELLA SALUTE” – Lo Specchio – Mondadori – 2011 -
Mondadori, attraverso il direttore editoriale Antonio Riccardi, ha deciso di salutare ogni anno la giornata mondiale della poesia (21 marzo) con la pubblicazione di voci emergenti nella collana Specchio, in una veste snella e a basso costo. Si tratta senz’altro di un’iniziativa interessante, trattandosi di una delle collane più prestigiose nel panorama dell’editoria poetica italiana, e che premia e legittima il lavoro non solo di giovani autori di qualità, ma anche di tanti piccoli e medi editori di settore che quotidianamente tastano il polso della poesia contemporanea.
Nel battesimo di questa iniziativa, spicca la raccolta “L’ombra della salute”, del trentatreenne milanese Alberto Pellegatta.
La prima qualità distintiva della poesia di Alberto Pellegatta è una profonda riconoscibilità formale, una compattezza linguistica che non cede a nessun eccesso verbale, a nessuna sbavatura strutturale, lessicale e sintattica, indice evidente di una maturità espressiva sorprendente. Costruiti facendo leva su una sintassi piana, netta, precisa, i suoi versi si imprimono facilmente nell’immaginario e nella memoria del lettore e ci restano a lungo, perché sono profondamente sensoriali, evocativi, perché si nutrono di accostamenti di immagini lontani dal linguaggio e dalle logiche del parlato, ma di derivazione quotidiana e naturalistica e di esito quasi onirico.
La poesia di Pellegatta, soprattutto nella prima e nella terza sezione della raccolta, racconta di una materia in continua evoluzione, o piuttosto dissoluzione verso particelle elementari. Senza scomodare l’abusata linea lombarda, risulta evidente in molti punti l’affinità con la poetica pulviscolare del milanese Maurizio Cucchi: “Il meccanismo, nell’insieme / è sferico, e musicale. Eppure è quantico / fragile e infinitesimale / nel dettaglio”. Il poeta assiste alla rovina e registra il disfacimento dell’esistenza senza atteggiamenti introspettivi, essendo egli stesso parte di una realtà fisica che si riduce a un minimo che diviene un tutto liquido, gelatinoso o gassoso, intangibile, indistinto, caotico (“Girandole di gas nel vuoto concavo / che ci contiene tutti. Non c’è nessun centro e l’orlo / si cuce su se stesso. Il tempo è spazio che si espande.”). Il suo occhio infatti – perché è la vista il senso dominante –, costantemente rivolto all’esterno, fotografa immagini tendenti al buio, al grigio, all’oscurità. Si tratta spesso di atmosfere urbane, di una Milano ovattata, che non dà punti di riferimento, che disorienta (“Non c’è nessuna casa. Andando avanti così / non ci saranno neanche i viali nei quadranti / le mani i nani i cani – le circonvallazioni.”), come se alla disgregazione materica e geografica verso il nulla corrispondesse una dissoluzione intellettuale, ontologica e, finanche, antropologica e sociologica.
Non è difficile notare echi montaliane nella poetica di Pellegatta, evidenti se si considera ad esempio il tema del rapporto tra l’individuo e la morte, intesa come non-esistenza, o il frequente utilizzo delle negazioni (“Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.”), come nel testo forse più potente ed espressivo della silloge: “Chi separa e scarta secondo un progetto / crea esuberi incessanti. // Scriviamo senza calore / non ciò che avreste voluto / ma quello che non avete / pensato. Non per riscatto / ma per vendetta. // Non è mai / ciò che abbiamo scritto.”
Anche quando l’autore presenta atmosfere e toni più caldi e si abbandona all’abbraccio della relazione con un “tu”, il tema dominante resta quello del collasso, della rovina, del vuoto, da cui il poeta può solo suggerire la protezione, verso una salute latinamente intesa come salvezza: “La congiura vicino alle pagine, tosse / acqua, pesci, rane: difenditi dalla natura.”
Vito Russo
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