LA GENERAZIONE ENTRANTE. Poeti nati negli Anni Ottanta a cura di Matteo Fantuzzi - Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, novembre 2011 pp. 170 € 12,00
Ricordo che nel n. 9 del quadrimestrale di letteratura «Poiesis» del 1996 c’era scritto: «Che senso ha in Occidente, nell’alcova del mercato universale, scrivere versi? O la poesia si ritaglia uno spazio e diventa un buon prodotto accessorio, una piacevole vivanda nella mensa dello Zar, oppure la sua vita sarà precaria e continuamente minacciata dal disconoscimento universale, dal ribrezzo del nuovo eone. (...) Può sopravvivere l’arte più superflua di tutte nella cinica e brutale società creata in Occidente (ed ora anche qui in Oriente? Possono sopravvivere le parole vere, capaci di penetrare dentro l’orrore della neutralità?» (Andrej Silkin). E ancora: «Non siamo più esiliati, perché v’è esilio soltanto se c’è un luogo che noi abitiamo da sempre e con il quale intratteniamo una relazione di intimità. Non v’è più esilio perché non v’è più una dimora. Siamo ormai tutti degli apolidi senza identità che trattano con grande cinismo e distacco tutto ciò che abbia relazione con il nuovo vestito dello spirito: nutriamo sospetto e diffidenza per l’arte che parla dichiaratamente di un nuovo vestito dell’interiorità...».
Ed adesso facciamo un salto in avanti. Qualche mese fa su un blog letterario in risposta alla questione della critica di un testo di poesia, scrivevo: «…spero che la controversia sulla litote non degeneri in lite… vacue discussioni accademiche su un argomento accademico che è già accaduto…
assistere alle Vostre discussioni è come assistere ad uno spettacolo di combattimento di gladiatori (ma almeno lì c’erano delle regole e c’era un arbitro!)… concetti come: “necessità di ‘punti fermi’” o addirittura di “assiomi”… o addirittura che ciascun critico abbia diritto a, come scrive il Calcaterra: «redigere la propria mappa, delineare il proprio canone, esclusivamente fondato sulla sovrana ragione di un giudizio di valore (e di gusto, che poi è lo stesso) che sia vissuto come espressione di una verità soggettiva…
Tutta una teminologia simil-teologica e simil-monarchica come “valore”, “assiomi”, “canone”, “verità soggettiva”, “sovrana ragione” mi rendono persuaso e dissuaso ad affrettarmi a prendere una tazzina di caffè… vorrei stare al largo da chi detiene un tal vocabolario dogmatico-teologico e demotico-monarchico tipico di una casta di sacerdoti che sono stati fatti sloggiare dal Tempio dalla nuova sopravvenuta religione laica del “mercato”.
La verità è che per fortuna i critici (di professione) non contano più nulla, i loro “giudizi” sono carta straccia… e francamente non nutro alcuna nostalgia per quanto si è perduto, di quell’epoca del giurassico dove c’era una casta di unti del Signore (i critici accademici e giornalistici) i quali si arrogavano il potere di dichiarare il “giudizio di gusto”, e quindi la condanna a morte o alla vita eterna dei testi e dei loro autori…
Oggi, per fortuna non è rimasto più nulla di tutto ciò e i garruli nostalgici dell’epoca monarchico-demotica possono intonare alti peana su quanto si è perduto…
Io invece non nascondo la mia intima soddisfazione: quanto si è perduto valeva probabilmente quella perdita, si è perduto ciò che doveva esser perduto…
E, sempre sul medesimo blog, scrivevo con un pizzico di ironia: «Parlare, come fanno i critici di codesto blog, intorno al “giudizio di valore”, mal dissimula quel che c’è dietro tale ipostasi: “giudizio di valore” come giudizio di una casta di sacerdoti che perorano la liturgia della religione che essi rappresentano. Dietro queste prese di posizione c’è, enorme e ben visibile, la crisi di rappresentatività della critica ufficiale (quella delle Università e degli uffici stampa) la quale non riesce ad “imporre” politicamente il proprio “progetto culturale”.
Che dire? questa è la situazione, e non credo che un Congresso Universle dei blog letterari possa cambiare una situazione di fatto.
Inoltre, pensare di “imporre” con decreto dei blog o con metodo oligarchico (o poliziesco) da parte di alcuni critici di professione, un “canone”, uno statuto del “giudizio di valore”, mi sembra quanto meno ingenuo…
In una situazione «liquida» e di “svendita” a saldo dei prodotti (anche culturali) come quella attuale, anche la questione critica diventa “liquida” e viene “liquidata” dall’unica logica che poi è quella del mercato, il quale ha le sue logiche del profitto e dell’accumulazione ma anche dell’azzeramento di tutto ciò che gli è estraneo… poi c’è la logica delle Istituzioni deputate alla creazione della «cultura»… ma questo è già un altro discorso…
... dirò che tutto l’articolato di Alberto Casadei mi sembra un catalogo delle “buone” intenzioni in pro della letteratura; insomma, una serie di “rivendicazioni” (lecite, comprensibili, addirittura filantropiche) che un esponente di un ceto impiegatizio del settore Cultura fa al settore Cultura. Purtroppo (dobbiamo prenderne atto), ormai le regole del gioco sono imposte dagli uffici stampa degli Editori Maggiori e dai corrispondenti letterari dei Quotidiani (che poi sono sempre i critici di professione), dalle leggi della società dello spettacolo e della visibilità mediatico-culturale (come tutti sappiamo).
E sappiamo anche che di buone intenzioni è lastricato il sentiero verso l’inferno…
Io, lo ripeto, poiché sono un indipendente solitario (e per questo ne pago il corrispettivo prezzo di esiliato in fuori gioco), non posso che accettare con giubilo che l’antica dinastia di dinosauri si sia estinta e che rimangano soltanto dei flebili barriti di cordoglio e di rivendicazione… ripeto, ciò che è stato perduto forse era degno che andasse perduto.
Dal mio punto di vista di intellettuale indipendente (perché nessuno mi ha finora ingaggiato in un Ufficio della Letteratura, e quindi sono un disoccupato della Letteratura), guardo a questi fenomeni come un entomologo osserva gli insetti che sta studiando. È con l’allegria del naufrago che assisto alle interminabili discussioni se inserire questo o quel libro in lettura nei Licei nazionali…
La mia opinione è che la medicina proposta sia del tutto inadeguata alla gravità della malattia diagnosticata. Ci vorrebbe una bel altra medicina, a mio modesto avviso.
Per quanto riguarda il “giudizio di valore” che il critico di professione è legittimato a profferire, mi sembra di parlare del sesso dei cherubini in un congresso di teologi vaticanisti con i vocaboli della Controriforma… costoro usano un concetto come quello di “valore” in modo acritico e storicamente ingenuo… a questo punto dovrei scrivere un trattato per stabilire la liceità e l’ambito di applicazione di un tal concetto… e non mi sembra questa la sede idonea».
Tutto questo per evitare di pronunciarmi su questa Antologia? No, anzi, dirò in tutta franchezza che il livello medio di tutti gli autori inseriti (Dina Basso, Carlo Barabba, Marco Bini, Giuseppe Carracchia, Tommaso di Dio, Francesco Iannone, Domenico Ingenito, Franca Mancinelli, Lorenzo Mari, Davide Nota, Anna Ruotolo, Giulia Rusconi, Sarah Tardino, Francesco Terzago, Matteo Zattoni) è senz’altro più che apprezzabile, addirittura encomiabile. Ma ho la sensazione che si tratti di una bravura per eccesso, ipertrofica, come se questi giovanissimi autori avessero di già tutte le carte in regola per presentarsi sul palcoscenico della poesia italiana a pieno titolo. Che appaiano più maturi dei maturi. Molto interessanti e ben scritti sono anche i profili critici dei singoli autori da parte di studiosi versatili. Ma il punto che dobbiamo chiederci e chiedere ai giovanissimi autori è: c’è davvero bisogno di poesia oggi? E per dire che cosa che non può essere detto con il romanzo? Qual è lo specifico, la domanda (o le domande) fondamentali che la poesia oggi deve affrontare?
Probabilmente è giusto e anche naturale che i giovani e i giovanissimi poeti si aggreghino in Antologie e in pattuglie letterarie, in blog e in siti letterari, che cerchino una auto legittimazione e una legittimazione da parte degli establishment letterari, ma ho la spiacevole impressione che questo atteggiamento, questa ricerca di accoglimento da parte degli optimates mal dissimuli un bisogno di riconoscimento e di accettazione, insomma che mal nasconda un bisogno di omologazione agli stili e alle mode delle generazioni immediatamente precedenti, come per rassicurarle che terranno un comportamento consono ed educato, che non romperanno alcuna cristalleria di riguardo, che entreranno con passi felpati e silenziosi nel negozio di cristalli swaroski...
Ecco, ritengo che tutto ciò non giovi all’immagine di questi poeti giovanissimi. Personalmente io mi sarei augurato invece di incontrare una generazione un poco più arrabbiata, con un po’ di fame d’essere, fame di vita, di intemperanza e di ribellione, perché ritengo, anzi, ne sono convinto, che «ribellarsi è giusto» come scriveva Sartre in un libello degli anni che seguirono il Sessantotto.
GIORGIO LINGUAGLOSSA
ringrazio innanzitutto per l'analisi e per le critiche che a mio avviso sono sempre salutari soprattutto quando hanno senso costruttivo. mi chiedo però se in qualche modo non sia cambiato il modo di ribellarsi, che non sia semplicemente differente rispetto a quello che 45 anni fa quasi è stato il modo del '68. insomma se nella modifica dei tempi e dei caratteri non cambi anche il modo di andare oltre, senza più operazioni di rottura, quanto piuttosto di superamento naturale, di andare oltre. matteo fantuzzi.
RispondiEliminaringrazio anch'io per l'analisi critica pungente (...con un sospiro di sollievo: finalmente!) e vengo alle molte questioni poste. dico la mia su alcune.
RispondiEliminala domanda "perchè scrivo?" è una domanda che penso sia comune, tra noi, come lo è per molti altri, se sono onesti con se stessi riguardo a quel che fanno. la risposta non può essere per tutti quella sartriana/sessantottesca, anche se personalmente la condivido, almeno parzialmente. la risposta autentica, tuttavia, sta nei testi. ed è una risposta, come si osserva giustamente, poco incazzata, poco aggressiva, poco frontale. sono d'accordo, o quasi.
certo, cerchiamo il superamento naturale, citando matteo, e sarebbe ora di arrivare a scenari nuovi, nostri o di altri che siano.
certo, siamo poco antagonisti, c'è poca rottura, perchè le rotture che ci sono state non sono più praticabili, non lo sono con coerenza. dovunque mi giro ci sono ex-sessantottini seduti sulla poltrona, ed epigoni di epigoni di certe scuole. oppure gente che scrive per soddisfare il proprio ego e il proprio circolo di potere. gente che scrive per la propria sicurezza personale, senza conoscere la precarietà.
c'è chi, invece, investito dalla precarietà, arrangia con quel che può.
lo prendo come uno stimolo a fare di più, e di nuovo: ringrazio.
c'è stato chi ha scritto con veemenza, comunque, negli ultimi anni, il mio nome è Simone Cattaneo, ma se ne potrebbero dire altri. lorenzo mari.
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Eliminagabriele personalmente di aperitivi ne ho bevuti pochi in vita mia, ma la questione non è questa quanto piuttosto il punto è sulla "rottura", nel senso che come ribadisco un'operazione di rottura come il gruppo '63 ha portato a un rintanamento della poesia nei luoghi per pochi eletti che sinceramente non mi interessa. e questa idea di completa rottura paventata io sinceramente non la vedo oggi, chi l'ha fatta per lo più ricopia quel tipo di avanguardia, la rabbia di cattaneo era sì una forte fotografia del sociale ma va estrinsecata dalle sue vicende private (questo lo dico anche per la volontà di restituire attenzione alla sua poesia). detto questo io trovo che invece ci sia molta rottura in questo lavoro, o almeno c'è negli intenti: sono internazionalizzabili le opere di ingenito e terzago (e per troppo intento la poesia italiana non lo è stata), è di rottura l'uso del dialetto della basso (e nelle antologie nonostante mostri sacri come loi o baldini per molto tempo non è stata inserita), è di rottura l'attenzione al sud che per 30 anni non era stato considerato in nessuna antologia, ma tutto questo non è fatto in maniera volontaria quanto piuttosto naturale, è naturale l'evoluzione della poesia. non è che urlandola funziona meglio, nemmeno simone urlava, sussurrava. ma le sue parole erano molto pesanti. io resterei al senso "ecologico" delle questioni e al fatto che le poesie vanno lette per la loro sostanza, fermarsi alla forma, alla maniera mi sembra un esercizio del passato di cui serenamente si può fare a meno.
RispondiEliminapersonalmente auguro alla GENERAZIONE ENTRANTE la migliore prospettiva possibile. E lo spiego. A mio avviso (dico come poeta e contemporaneista) sono interessato a che la generazione che anagraficamente mi segue sia una generazione viva, ricca e significativa (il perché è in re); non sono interessato invece quando vedo che i più giovani sono interessati soltanto ad una lista di attesa per l'iscrizione del proprio nome nelle istituzioni che contano. Il mio augurio è che i più giovani di me abbiano la vista ampia e lunga, che siano capaci di guardare un po' dentro le cose dell'istituzione poesia (se possiamo chiamarla così). Quando parlo "di fame d'essere, fame di vita, di intemperanza, di ribellinone", non intendo una ribellione politica (non solo, visto lo stato di disastro nel quale le classi dirigenti hanno portato il paese), quella la faranno le masse, prima o poi, ma certo chi fa poesia non può restare indifferente di fronte allo stallo, direi, mi si consenta l'espressione, spirituale, dinanzi allo sfascio di epigonismo e di nepotismo delle istituzioni editoriali e letterarie, dinanzi alla vocabologia delle fratrie letterarie (io sono di sinistra, più a sinistra di te, tu sei a destra, tu scrivi su quel giornale e quindi non va bene, etc. - vedi la Nazione Indiana etc.). Io sono convinto (forse sono un illuso) che la poesia debba seguire la propria strada, fatta sì di solitudine interiore ma anche di forti e salde socializzazioni esteriori. Non bisogna confondere il piano intimo, che deve restare inviolato, con quello sociale dell'impegno (mi si passi la parola desueta, lo so) che ci deve essere (intendo l'impegno letterario, la responsabilità di ciò che si scrive). Io non penso affatto che occorra far rivivere il '68 ma neanche che la rivolta giovanile di quegli anni possa essere liquidata come di recente ha fatto valerio Magrelli in un libello dove esprime tutto il suo risentimento piccolo borghese verso l'ultimo movimento di ribellione giovanile dell'Occidente. Ma questo è un altro discorso... che però entra prepotentemente nella questione che oggi si vuole sollevare: sarà capace la GENERAZIONE ENTRANTE ad entrare per davvero nei gangli delle istituzioni letterarie per modificarne, dall'interno, le strutture e le logiche di egemonia? Lo vuole davvero? O non lo vuole affatto? Ritiene la GENERAZIONE ENTRANTE che la cosa-poesia sia un manufatto innocuo e che quindi debba essere gradevole e gastronomico? Che posizione ha la GENERAZIONE ENTRANTE di fronte al riformismo moderato che io ho indicato nel mio recente libro "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010), recentemente edito? Quale posizione assume la GENERAZIONE ENTRANTE di fronte al "parametro moderato" della linea Sereni-Giudici?
RispondiEliminaInsomma, in una parola, riprendendo la frse di Matteo fantuzzi: "andare oltre" sì, ma dove?
....e, concretamente: quale è la generazione "entrante"? Dove abita, che cosa fa,quale segno lascia nella società umana? Da dove viene e in quale direzione va? E' facile autodefinirsi. Più difficile è essere un pezzo di storia che palpita,che si impone con autonomia e vita. Insomma si è, non ci si dice.
RispondiEliminaA mio parere,per quel che può valere.
Le ultime quattro righe dell'intervento di Linguaglossa fanno riflettere : può darsi - verosimilmente - che a monte di una scrittura in versi "conformista" vi sia una sorta di sudditanza psicologica , di "soggezione" , comunque un condizionamento più o meno evidente nei confronti del lavoro espresso dalla generazione precedente : una "fascinazione" comprensibile che però - e qui è il punto - non trova sbocchi in una scrittura non dico antagonista ma quantomeno critica rispetto a sopraggiunte tematiche sociali e civili inquietanti e sovraesposte da sembrare ineludibili per chiunque voglia scrivere poesia con modalità adulte e consapevoli .
EliminaEd è qui che la condizione "adulta" - anagraficamente mancante - non può non rappresentare una pregiudiziale in ordine all'avvicinamento dei referenti di cui sopra .
L'urgenza di sentirsi parte di una società e di rappresentarla introiettandola nel proprio vissuto , non può trovare adeguate sinergie perché il vissuto è esiguo o comunque non tale da mediare stimoli e motivazioni legate a più esperienze esemplari definitorie o definitive .
Difficile configurarsi un autore che a venticinque anni spiega nega denuncia riassume sentendosi compartecipe e interprete responsabile del suo tempo e della Storia che l'ha prodotto . Quello che si può augurare ad un giovane - al di là del produrre una poesia sacrosantamente antagonista - - è di non essere come spesso accade sopravvalutato e incensato per una poesia che va soltanto cercando se stessa e la sua ragione di esistere e durare .
La legittimazione intempestiva da parte di certa critica non fa crescere , è una cerificazione disonesta che illude e inquina la consapevolezza e le risorse di chi desidera perseguirla .
Grazie dell'ospitalità .
leopoldo attolico -
Mario Luzi nel 1935 con "La barca" in soli diciannove componimenti aveva una perfetta coscienza storica .La poesia,diceva Paola Malavasi: "E' qualcosa di più della vita, qualcosa di meno dell'universale". Ha una dimensione proiettata verso l'eternità. Non si misura a decenni, ma forse nelle ere e negli eoni.
EliminaE senza nulla togliere ai giovani autori.
io credo che tutte le giuste osservazioni e preoccupazioni che muovete si possano dissolvere conoscendo e leggendo la (seppur breve magari di fronte ad altre esperienze) vita di questi autori non dimenticando che contrariamente ad altri decenni non mi sento di percepire una fretta di arrivismo tramite epigonismo quanto piuttosto una volontà di lavorare bene ad obiettivi precisi, si veda ad esempio le linee espresse da carlo carabba nel domenicale del corsera solo alcune settimane fa, ma si vedano anche le stesse opere: l'invito è a leggere davide nota, uno dei maggiori autori in italia oggi (al di là delle generazioni) di quella che un tempo si sarebbe detta poesia civile ma che oggi appunto va nella direzione della poesia sociale, direzione che non lascia nemmeno me come indifferente né come autore né nel lavoro militante. e così fa lorenzo mari, ma guai a dimenticare anche marco bini, leggetene i lavori qua e nei loro libri ribadisco e capirete che i vostri legittimi dubbi sono tranquillamente dissipabili: la volontà è quella di cambiare le cose attraverso la poesia e attraverso la gente, attraverso la fruizione. gli ingranaggi sono qualcosa di nemmeno prioritario (anche se il lavoro anche da questo punto di vista di certo non manca), perché gli interlocutori reali diventano i fruitori, i potenziali lettori e non più unicamente i baroni, le aule universitarie. non è forse un percorso di rottura questo ? a me pare una svolta epocale, o meglio un ritorno a qualcosa di reale, estremamente reale. leggeteli dunque perché rimarrete lieti di quello che incontrerete. matteo fantuzzi.
RispondiEliminaHo letto con attenzione le sue righe, Signor Linguaglossa, sulla questione LGE e tutto il resto esposto prima di parlare, appunto, dell’antologia. Personalmente mi riesce più facile occuparmi della salute della poesia piuttosto che di quella della critica, ma se lei che vi milita (o, anzi, si tiene ai margini – da buon indipendente solitario - ma trova ottimi spazi per farne) mi apre questo scorcio/squarcio su un mondo liquido, disperato e apocalittico-senza-più-riferimenti non mi resta che ascoltarla. Tuttavia, c’è della critica in giro che ancora conserva una parvenza di buon andamento e imparzialità (laddove si può). Francamente non riesco a vedere la catastrofe o, se la vedo, la percepisco – questa, sì – come una delle possibili verità soggettive di cui parla nel suo articolo. Detto questo, divido il suo intervento in quattro quarti. I primi tre quarti non interessano direttamente né l’Antologia né i testi scelti né gli autori. Dunque, benché siano argomenti interessanti, non risponderò che alle domande direttamente posteci. In verità mi pare che, premesso tutto quel che c’era da premettere sulla “critica in crisi” in questo tempo di “assoluta crisi”, abbia scelto, per dirla con una formula a lei cara, la strada della medietà critica, una pianura critica, dove tutti e quindici diventiamo autori di un livello medio più che apprezzabile. Anzi, di una bravura ipertrofica. Libertà sacrosanta ma mi chiedo: ha senso parlare di livello e di bravura se poco più sotto lei fa domande molto più al di là del fattore tecnico, contenutistico e linguistico? Una sorta di domande meta-tecniche, meta-contenutistiche, meta-linguistiche. Addirittura domande che involgono l’essere, l’autodeterminazione e la fame di vita. Mi pare abbia scelto di saltare quasi a piè pari la questione contenutistica per spronarci a rispondere circa questioni da massimi sistemi. Va bene, è anche questo un metodo. Prima di tutto mi premeva riconoscerle un coraggio estremo, in ciò. Non so quanti adulti, genitori, per esempio, dopo un attento e lucido sguardo gettato sulla nostra generazione, avrebbero lo stesso coraggio nel porre le stesse domande. Ma andiamo con ordine.
RispondiEliminaSiamo “arrabbiati”? Certo che sì. Basterebbe leggere (leggere davvero) le poesie di Giulia Rusconi su una paternità perturbante/perturbata, a tratti volgare, molto poco paterna per capirlo. Ma se poi ci si soffermasse di più su Terzago si leggerebbero versi come “si crede a stento che possa esistere il paese del mondo”. Sono versi “arrabbiati”. “Arrabbiata” e implorante è la creaturalità debole e fallace di Iannone, Zattoni parla di un “rincorrersi di lupi”, Nota – invece - di “dopo dopo dopo guerra”; c’è “l’impossibilità di dire con secchezza” di Mari, “l’occhio che frana” di Franca Mancinelli, gente che non ci accoglie più “quando spargiamo magia per le strade” come dice Ingenito; Dina Basso si veste di “niuru”. Non cito tutti, mi perdonino gli altri ma qui non volevo fare apologia. Volevo solo che qualche fatto concreto dimostrasse l’ “arrabbiatura. Un’arrabbiatura che ci viene richiesta sempre più spesso, a quanto pare, come forma incontrovertibile di rottura che, come detto prima e meglio da Fantuzzi e Mari, sì c’è ma – soprattutto - può (e deve) manifestarsi in varie forme. Come in varie forme si manifesta la ribellione che cercava.
(continua sotto)
“C’è davvero bisogno di poesia oggi?”, chiedeva. Bene, ammettiamo che la poesia sia morta e defunta. Benché morta, defunta e decomposta la poesia continuerebbe a farci formulare delle domande. Non importa la risposta, vale l’intenzione. Importa che qui di domande ce ne facciamo ancora. E sa perché? Perché “i morti sono l’epoca delle domande”: sic Yves Bonnefoy a Napoli alla consegna del Premio Napoli, appunto. Come vede, non si perde tempo. La poesia è morta? Bene! Almeno ci tormenterà con le sue domande. Serve tutto ciò? Credo di sì. Il romanzo fa lo stesso? Non credo. Sebbene abbia sempre trovato suggestivo e valido l’assunto della Zambrano “Novella e poesia hanno riflettuto, meglio della conoscenza storica, la verità del passato, la verità delle cose che accadono agli uomini e i loro sentimenti più intimi” tendo, oggi, a dare maggior credito alla poesia. Non per partito presto, beninteso. Restando alle ultime novità italiane, tutto quel che ho letto è stato un bel passatempo, non ha prodotto in me quell’ansia del domandarsi e domandare. La poesia è la nostra codificazione spirituale e sempre valida perché somiglia a noi, alle nostre coscienze prima che agli eventi e alle azioni (“credersi, dopo tanto inverno”, dice Tommaso Di Dio, altro giovane). Dunque, qual è la domanda fondamentale che la poesia oggi deve affrontare? Niente poco di meno che la richiesta della domanda. E non sto facendo tautologia. La poesia deve far sì che io mi domandi… che lei si domandi… Punto. Nessun morto, ad oggi, mi ha mai risposto. Ma molti mi hanno fatta interrogare. Non è ansia di vita, questa? Se a me arrivassero risposte già confezionate non avrei fame d’essere. Ammesso che tutta la fame di vita e la fame d’essere possa esaurirsi in poesia. Non lo credo.
RispondiEliminaSebbene la citazione sia quasi sempre inelegante e addirittura odiosa, visto che ci siamo, le do la mia personale lettura del «ribellarsi è giusto»: “dovremmo parlarne con una lingua diversa, / o-c-e-a-n-i-c-a / che lasci filtrare cose grandi e cose piccole / attraverso i cassetti del mondo”.
Ma più interessanti e circostanziate sono le domande che pone nel commento in risposta.
“Sarà capace la GENERAZIONE ENTRANTE ad entrare per davvero nei gangli delle istituzioni letterarie per modificarne, dall'interno, le strutture e le logiche di egemonia?”: be’… che non ci investano di cotanta responsabilità! LGE non è la panacea di tutti i mali né deve essere – per chissà quale motivo trascendentale – uno dei modi di responsabilizzazione delle generazioni che ancora (e probabilmente per molto) reggono e reggeranno le sorti del mondo poetico ed editoriale. Saremmo scorretti e avulsi dalla realtà se la pensassimo così. LGE è un lavoro trasversale (nel senso che taglia l’Italia e i “modi della poesia” trasversalmente) e non esattamente “canonico” che cerca di fare la sua parte. Per la prima volta non conta il solo dato geografico o l’adesione a questa o a quella linea. L’appiattimento dei quindici autori sotto una qualche idea univoca o una linea retta non dà il senso giusto del lavoro e del suo contenuto. Possiamo passare i giorni a parlare di categorie storico-filosofiche, ma il senso e la portata (che sia grande, media o minuscola) del lavoro è contenuta nei testi (sic Matteo Fantuzzi, qui sopra).
Ancora: “Che posizione ha la GENERAZIONE ENTRANTE di fronte al riformismo moderato che io ho indicato nel mio recente libro "Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010), recentemente edito?”: mi dispiace, non posso dirle la mia, non avendo letto il suo lavoro recentemente edito. Ma ricondurrò la seconda domanda sotto la prima domanda e dunque la possibile risposta sotto la prima risposta: si cerca di fare la propria parte, non la parte di tutti, secondo le modalità bene denunciate nei testi e negli intenti recuperabili dagli stessi testi.
Sul “parametro moderato” la rimanderei alla trasversalità cui accennavo prima. Magari la domanda perderebbe ragion d’essere.
Quanto alle questioni sollevate dalla Signora Sandra, la generazione entrante è “già e non ancora”, almeno dal punto di vista storico-critico. I segni che si lasciano, i posti che si occupano nella società si stabiliscono a posteriori: è il lavoro della critica e, sicuramente, il lavoro della “utenza”. Questo non vuol dire che ciascuno di noi non abbia già la sua coscienza storica e non si autodetermini secondo la propria linea d’azione. Praticamente sono due discorsi e due piani differenti.
RispondiEliminaLa definizione (non autodefinizione, mi permetta – e già che ci siamo mi piacerebbe chiarire come il resto delle definizioni contenute nella prefazione del nostro curatore siano state spesso fraintese e siano ancora, tutt’ora e sempre la base teorica delle domande che continuamente ci vengono poste laddove, in realtà, andrebbero lette come una provocazione, un invito a riempirle di contenuti - ) è parte del lavoro di mappatura. Il lavoro di mappatura fa il punto della situazione, non storicizza, almeno non ancora. È un paradosso pensarsi come fautori della storia universale e auto-lettori e auto-cristallizzatori della stessa storia universale che si sta facendo. Autori e, insieme, critici di se stessi. "Avere una coscienza storica" è cosa diversa dal "lasciare un segno nell'umana società".
Solo e solamente in questo senso posso essere d’accordo con l’intervento – molto garbato e interessante – di Leopoldo Attolico, in questa parte: “Difficile configurarsi un autore che a venticinque anni spiega nega denuncia riassume sentendosi compartecipe e interprete responsabile del suo tempo e della Storia che l'ha prodotto”.
C’è un “già sempre avvenuto” e un “qualcosa di sempre imminente”, dunque individuale, singolare ed esclusivo. Bisogna avere – certo - il senso del primo ma procedere col secondo. La classificazione, il giudizio, il risultato – in quanto autori - non ci competono.
anna ruotolo
errata corrige:
RispondiEliminauno dei modi di responsabilizzazione delle generazioni che ancora (e probabilmente per molto)[...]
uno dei modi di DE-responsabilizzazione delle generazioni che ancora (e probabilmente per molto)[...]
Condivido la stanchezza di Linguaglossa riguardo alle questioni di lana caprina sollevate dai critici e talvolta anche da noi stessi poeti. Si parla di linguaggio ecumenico e di "verità rivelate", vi dirò di più, talvolta sembra quasi che il linguaggio sia "mafioso" e la struttura sia ricollegabile a clan, fazioni contrapposte che si combattono a colpi di idee, pubblicazioni e vendette trasversali. Questa è quella che Linguaglossa chiama "istituzioni letterarie" (che non dovrebbero esistere a mio parere, ma in cui giocoforza ci ritroviamo). é triste ma è così, se andiamo a vedere tutti i "favori", le recensioni, i premi etc. senza dimenticare che ognuno è libero di premiare chi gli piace o di scrivere bene o male, ovviamente, ma mi pare che l'esercizio della critica sia raramente un esercizio di libertà, e sia invece piegato a vincoli di quieto convivere, in cui se stai al tuo posto c'è posto per tutti. In questo senso, l'intervento del Linguaglossa è non solo condivisibile, ma anche veritiero in molti punti, a mio parere. Ma questo è anche il mondo che ci hanno lasciato in eredità, una selva in cui muoversi e districarsi stando ben attenti. Per questo credo che la nostra responsabilità sia presente, ma non è necessariamente voglia né di incensi né di lodi: è voglia di essere letti, di circolare, di porre domande. Quando si decide di uscire con un libro, già per questo ci si "sporca le mani", si entra nel meccanismo, in parte ci si schiera già solo perché si è scelta una casa editrice e non un'altra. Ma cosa dovrebbe fare un giovane per essere letto? Lo so che può sembrare balzana la contraddizione che evidenzio, in quanto è difficile combattere qualcosa facendone parte (intendo, parte del vastissimo panorama poetico italiano), ma questo non vuol dire che gli autori raccolti nell'antologia di cui parliamo siano "la classe dirigente entrante": e se ci si riferisce all'intento politico dell'opera che Linglaglossa solleva, dico immediatamente che, per quanto mi riguarda, non è ciò che desidero per me. Non ritengo che la poesia sia un qualcosa di innocuo/gradevole/gastronomico, ma non ritengo neanche che debba essere un modo per impugnare le briglie del "potere" (che è la via che spesso vediamo battuta). Se qualcosa è degno e ci smuove da dentro, ci fa interrogare, quel qualcosa va da sè, va coi testi, circola senza il bisogno di creare barricate o corporazioni o rigidità. Si stacca da me persona e diventa di tutti - bisogna avere anche il coraggio di lasciarlo andare. Credo che la rivoluzione, la rabbia, il prezzo dell'onestà e della disonestà, l'ascolto, siano cose con cui fare i conti dentro di sé, analizzando ognuno il proprio torbido, e non solo quello del mondo esterno, che vediamo forse meglio. A me, come a tanti, interessa vivere e scrivere, nella sobrietà e nello sfacelo esistente, cogliendo, ovviamente, ciascuno un aspetto di questo sfacelo: ognuno legge il pezzo di realtà che più lo turba; a 25 anni appunto, nessuno pretende di avere la verità (dall'universale all'individuale) in tasca, ma nemmeno si possono cassare i nostri sforzi con la formula "prima dei 45 la poesia non andrebbe pubblicata" -cosa che mi è stata detta, e che mi lascia sbigottita.
RispondiEliminaCredo che ci sia un nodo intergenazionale da sciogliere, che per carità, è antico quanto il mondo e non mi stupisce ritrovarlo come filo rosso alla base di molti discorsi intorno alla poesia: la presunzione della gioventù, che si sente orfana, senza padri né padrini di sorta, e la presunzione degli adulti, che a fatica lasciano andare ciò che hanno costruito in mano di una generazione che non riconoscono. Infatti i "grandi" ci chiedono della direzione, del "dove stiamo andando": innanzitutto, è difficile dire dove stiamo andando tutti insieme, perchè ognuno ha la propria personale direzione, seppure l'orizzonte comune sia di precarietà. Se volete, possiamo trovare tratti comuni nell'uso della lingua, nella medietà, nel "cercare consensi a tutti i costi" talvolta, ma non è questa la risposta. Possiamo dire dove ognuno cerca di andare, possiamo dirvelo, se vi interessa, ma ci dovete leggere, perché nelle dichiarazioni d'intenti possiamo dire tutto e il contrario di tutto, nella poesia possiamo essere e non solo dire (nel migliore dei casi, ovviamente, ma questo è ciò che mi auspico). Se poi anche leggendoci, non dico sono noi della "generazione entrante", ma i poeti giovani in generale, non trovate proprio niente, forse è il caso di continuare a porsi delle domande, da ambo le parti.
RispondiEliminavi ringrazio.
Dina Basso