LAURA ACCERBONI : “ATTORNO A CIÒ CHE NON È STATO”. Poesie -
Edizioni del Leone, Venezia 2010 -
“Se tutto
si trascina a domani
nel tutto
dovremmo trovarci” (p. 39):
non è facile, a prima vista (e a prima lettura) indagare il mondo vero, dannatamente reale e pure fascinosamente onirico di Laura Accerboni alla scoperta – al pari di vere e proprie joyciane epiphanies – del significato delle sue parole-non-sommesse, del suo silenzio-non-muto e alla ricognizione di quelle che sono le sue più intime esistenziali radici umane (di donna del suo tempo, intendo) e liriche (di poetessa di ogni tempo, chiarisco).
Non già per i premi collezionati (ed elencati in esergo), ma grazie ad un suo consolidato spessore, l’autrice, ch’io primamente conobbi e accostai nelle sue liriche di giovanissima adolescente, appare qui, in questa sua ennesima silloge voglio dire, matura e come non mai impastata di poesia to the core, fin dentro il midollo.
Ogni verso cola liricità nuda e cruda, quasi brutale nella sua cristallina verità, ma per cogliere la sua visione dell’essere totale e comprendere ab imis la sua Weltanschauung, è necessario immergersi totalmente nel suo mondo lirico-onirico con primitiva innocenza e senza prevenzioni, con consapevolezza e senza preconcetti al fine di poterne carpire integralmente spiriti e forme.
Solo così è possibile afferrare quanto nelle liriche della poetessa Laura Accerboni prevalga e conti la Menschenkenntnis, vale a dire la conoscenza in profondità dell’animo umano nelle sue differenziate pulsioni di umanità, nei suoi rivoli di idealità, nei suoi travalicamenti di materialità.
Pur nella sua fluida scorrevolezza concettuale; per tutte le motivazioni testé addotte può suonare poesia ostica e ingrata, essa essendo una forma di poesia pienamente impostata sull’ubi consistam, che è il disvelarsi e il disgelarsi della consistenza dell’essere totale senza speranza, però, di salvezza: noi inconsapevoli, e forse ignari, di
“quale colpa
e quale inganno
hanno reso
questi sogni
né cosa viva
né cosa morta” (p. 44).
Non si dimentichi che tutte le liriche della silloge, non risultano mai silloge
“senza convinzione d’esistere” (p. 39),
ché mirano ad abituarci
“all’idea
che di morte non si muore
se non in vita” (p. 31)
e, conseguentemente, che
“la morte
richiede sempre
una presenza” (p. 35),
per cui
“all’immortalità
si deve
nella morte
il suo tributo di decenza” (p. 45):
sia chiaro, decenza accerboniana, non montaliana.
Siamo di fronte a versi nuovissimi quindi, ma che pure hanno radici antiche.
BENITO POGGIO --
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