IL TERREMOTO D’EMILIA
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Trascinato tra le rovine della mura
Il corpo di Ettore schizza pietre
sobbalza tra i massi argillosi,
salta tra buchi e fosse, cane che scappa
dal maligno bastone che picchia come il sole
nello zenit del Neghev.
Bene fece Ettore a non resistere e placare
l’odio col suo perdono di morte, ma tanto
fu lo stupore che il mondo devastò
in palazzi crollati, macerie accatastate,
incidentali vivi che scappano come Enea
dalla polvere della propria città.
Il perdono non ferma le onde del
demone brutale, inerte quello benevolo
se non nel trasportare le anime, delicato,
al loro posto tranquillo, salvare i soccorritori
sostenerli nella polvere umida e appiccicosa
che s’impasta col sole, veri fantasmi
dai cappelli gialli rossi neri.
Trascinato per i mari vicini dall’ira
degli scontenti immortali, lo smagrato
Ulisse dibatte come meglio può
fra frecce dorate, cantate melodiche
concave figure di sirene, bianchezze di
armenti, acqua brillante prodigiosa,
fresche ventilate terrazze. Ma la Maga
avida come Achille lo imprigiona per
un tempo non contabile e solo la penna
d’Omero riesce a portalo a Itaca, dove
contendono pecore e mucche ai villani
i suoi fedeli come il cane. Sfinito scompare
per interrompere le sequele delle lacrime e
dei lutti, provocando una tempesta
più forte di Polifemo che s’abbatte seconda,
senza intervento del buon dio che non può
interrompere la libertà responsabile.
Sola rimane la stirpe adamitica o può
pensare di risolversi secondo i libri sacri,
scritti in multiformi segni segnati tutti
nella raccolta dei vivi e dei morti.
Per la terza volta squasso e terrore
sulla terra non più sopportata da Eroi,
nascosti nei panni dei comuni mortali
i pompieri che corrono e scavano con benne
e mani per ridurre i danni, assistere i feriti
con le pance e i baffi pronti a sorreggere i muscoli
i lobi temporali. Sanno che la volontà loro
adesso è il dio pietoso e deciso che si moltiplica
perché gli smarriti, i paurenti sorridano e vivano.
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ETTORE BONESSIO DI TERZET
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