DE LIBERO, “dopo il ritrovamento di un’opera che si credeva smarrita”
Libero De Libero si era congedato dalla vita (1979) in perfetta coerenza con le sue persuasioni di universale entropia del reale e di viaggio dall’oscuro all’oscuro dell’esistente. Aveva scritto un libro informale sul non senso e sull’ambiguità delle fenomenologie, che, mentre appaiono concrete, risultano immateriali e imprendibili alla contattazione, che, mentre dicono sì, si chiudono acerbamente, ermeticamente in un aspro ripudio della condiscendenza e della consonanza. Era un libro non di aforismi, non di elucubrazioni spese in vigilie di lunghe ore diurne e notturne, ma una raccolta di materiali poetici, per lacerti, per scritture eteroclite, stridenti, perfino sgarbate, in mimesi della sua arsa, un po’ tenebrosa fantasia del mondo. Dal momento, però, che già prima di questa fase delle esplicite sgrammaticature e delle dissonanze nella sua produzione lui ricordava, era con sé stesso certo di aver testimoniato il suo attraversamento di una selva di apparenze improbabili e misteriose, lungo un versante in discesa echeggianti dei latrati di cagne infernali, voleva infine con questo suo ultimo lavoro rimettere ordine nel tutto, suggerire a futura memoria come tutte le sue soste poetiche non fossero che stazioni o accenni a stazioni predisposte al raggiungimento della meta finale. Tutta la sua esperienza, tutta la sua attività, come egli aveva potuto vedere in ultimo, era stata un preludio a questa rivelazione della sua “saison en enfer”. Il rinvio a Rimbaud ce lo suggerisce Savinio, che ha intercettato la vicenda di De Libero come quella di un “Rimbaud nostro, che il démone ha lasciato in pace”, volendo intendere non una condizione pacificata, ma una domesticata, educata familiarità col mondo ctonio, col regno di Ecate.
Con questo suo libro estremo e finale, De Libero voleva chiamare a raccolta gli appunti, i tracciati poetici precedenti, perché si riconoscessero in questo specchio della notturnità che era riuscito alla fine a comporre per scaglie e frammenti, benché essi corressero il rischio calcolato di osservarsi traditi, stravolti, sfaccettati, e si prefigurava di vederli arrivare, anche se in ordine sparso, con un ritmo che fisiologicamente faceva aggio ai più vicini rispetto ai lontani. Li chiamava à rebours.
Ed essi, in realtà, sembrano cedevoli al richiamo. Così adesso viene provato, grazie al ritrovamento di questo libro prezioso, dal titolo suggestivo di dematerializzata funebrità, Il gran forse, che il poeta non riuscì a pubblicare in vita, assorbito da preoccupazioni e sofferenze che lo portarono alla morte.
Per lungo tempo si era creduto che questa silloge si fosse perduta. Ma, per magnanimità e astuzia del Caso, essa è ricomparsa in occasione dei trent’anni dalla morte. Ed è stata pubblicata a cura di Valentina Notarberardino e Anna Maria Scarpati con una meditata e illuminante introduzione di Marcello Carlino, e con un’ampia, densa e accurata nota critica di Raffaele Pellecchia, che rivisita tutta la produzione lirica di De Libero entro uno stemma di quesiti rigorosamente, acuminatamente unitari. Nel volume, insieme con Il gran forse, che è la prima edizione di un’opera finora inedita, sono ristampate le raccolte fondamentali precedenti, come ad allegare le pezze di appoggio della prospettiva, ovvero dell’appello ex post dell’ultimo De Libero.
E’ venuto così alla luce, grazie a un contributo dell’Amministrazione Provinciale di Frosinone, un gran bel volume: Le poesie, Roma Bulzoni, 2012, pp. 344, € 30,00. Utilissimi sono anche i tracciati postfativi, che giustificano e storicizzano l’evento editoriale, proiettandolo a diventare uno strumento obbligato di consultazione e di studio per curiosi e addetti ai lavori nel campo della poesia italiana del Novecento. Il primo è uno studio eseguito con estrema diligenza e puntualità da Valentina Notarberardino (pp. 281-306) sul dattiloscritto ritrovato, sulle varie composizioni e sulle varianti apportate dall’autore sul testo, che gettano luce sulla maniera di lavorare e sulle intenzioni del poeta. Il secondo, dell’altra curatrice dell’edizione, Anna Maria Scarpati, è un medaglione della biografia intellettuale di De Libero (pp. 307-313). Il terzo, di Rodolfo Di Biasio, un poeta appartato ma delicato e serio, che ha tra i suoi principali referenti appunto De Libero, introduce interrogazioni sui “silenzi” del poeta su di sé e della critica su di lui (pp. 315-318). L’ultimo, di Alvaro Valentini, è la ristampa della ricostruzione della fortuna critica del poeta fino al 1978, l’anno precedente alla morte di De Libero. Forse, questo insieme di contributi sarebbe stato più completo, se si fosse aggiunta una schedatura degli interventi elzeviristici e dintorni del poeta, che contengono spunti, guizzi, suggerimenti, testimonianze preziosi rilasciati generosamente da De Libero nel dialogo con le situazioni culturali in movimento del suo tempo.
A ogni modo, quest’operazione editoriale va salutata come un accadimento culturale, in quanto segna una tappa decisiva nel recupero degli scritti di De Libero, nella rimessa in circolo della figura del poeta su cui è calato un greve e ingiusto silenzio e nei suggerimenti stringenti di una nuova interpretazione della vicenda deliberiana, che nella vulgata è stata prevalentemente ricondotta entro una tarda e cogente aura ermetica. D’ora in poi, come ci dice il testo di De Libero e come con persuasive ragioni e fondate argomentazioni è detto da Carlino, da Pellecchia e dagli altri che hanno messo mano all’edizione, non si può non tener conto della complessità e dell’originalità di una poesia, come quella dell’autore de Il gran forse, che certamente ha radici ben piantate e diramate nell’ermetismo italiano, ma che viene coniugando le suggestioni e i motivi ermetici col surrealismo (e forse anche, in ultimo, con l’informale).
UGO PISCOPO ---
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