BEPPE ---
Amava quella terra. La campagna
lo riempiva di gioia. Era la vita.
Quand’era solo in mezzo ai suoi raccolti
non chiedeva di più. La mattina
indossava i suoi stracci e al primo sole
prendeva lo stradone per i campi.
L’accompagnava un’alba d’erba nuova
che usciva in fondo al monte a discoprire
la vastità del cielo. Sprigionava
il nascere fecondo della vita
collo sfrecciare d’ali già veloci
al primo accenno di luce, e diffondeva
il sentore dei campi lavorati
che si sposava al vento. E lavorava
ora col maglio, ora con l’aratro;
e lavorava fino a tarda sera
senza sentir fatica. Era il tramonto
con i colori spersi fra i cipressi
e i rami degli ulivi a riportarlo
al riposo di casa. E nella sporta
aveva sempre un po’ della sua terra.
Il figlio era operaio in una fabbrica.
Ed un giorno
trasmise al padre, per necessità,
il grande cambiamento:
trasferirsi in città.
Una stradetta cupa dove a stento
penetrava la luce.
In quella strada l’alba non riusciva
a scoprire il suo rosa. Né il tramonto
riusciva a rivelare i suoi bei giochi.
Così la sera Beppe andava in piazza;
da là vedeva il cielo che gli dava
l’idea della campagna
con quello spazio vasto in mezzo ai platani.
Seduto sulla panca
fissava il giallo e il rosso del semaforo,
ricordando la luna sulle mèssi.
Ne aveva una gran voglia. Ritornare una volta,
anche una volta sola a quei profumi.
E il coraggio gli dette una gran forza:
zitto, zitto inforcò la bicicletta e via di corsa…
(Era un gran rischio. E lui ben lo sapeva)
Stanco e col cuore peso, iniziò a fremere
quando imboccò il viale. Sui rivelti (*)
le gazze becchicchiavano gli insetti,
e l’egrette seguivano l’aratro
nell’attesa del pasto. Fino al monte
s’apriva l’orizzonte. Finalmente
rivide la sua terra. Si sedette
sul ciglio che per anni aveva visto
quell’uomo sperso in cielo; si smarrì
fra i frutti e gli uliveti, e perse l’ora.
Gli stanziavano attorno quei piccioni
che aveva in altri tempi custodito,
e lui come saluto
simulava di spargere granaglie.
Forse, chissà, l’avevano aspettato.
Beppe guardò la luna che di giorno
era uscita per lui, di certo ben diversa
dal semaforo seppur ben colorato;
e stanco s’accasciò, portandosi nel cuore
tocchi, profumi, e spazi
che sempre aveva amato.
Era là che morì. E non da solo,
era riuscito a farlo sul suo suolo
in compagnia degli alberi
e degli uccelli in volo.
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(*) = le due lingue di terra rovesciate ai bordi dell'aratro
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(26/02/ 2012)
NAZARIO PARDINI --
Un canto,ossimoricamente, epico-elegiaco. Ci cogli il massimo e il minimo della vita, il contrasto tra il tripudio della campagna e lo squallore innaturale della periferia cittadina. Nessuno si chieda con chi sta Pardini: con Beppe, naturalmente,col suo desiderio di natura viva, di erbe aulenti,di alberi ombrosi, di terra ferace.
RispondiEliminaE' un canto emozionato ed emozionante.
Grazie dello stupendo, azzeccato, vissuto commento. E' proprio là che io sto: sulla terra di Beppe. Ma esiste o è solo un'aspirazione? Sì!, un'aspirazione. E di certo non al ritorno di un mondo che fu, ma all'avvento di un mito rinnovato per un nuovo giorno.
EliminaPardini Nazario