sabato 4 maggio 2013

INTERVENTO = GIO FERRI

“Il gioco della traduzione”
Per : "Sonetti" di Shakespeare, Ed. Ombra d'Oro Multimedia, 2000, traduzione plurilingue a cura di Giuliana Lucchini.
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Non si finisce mai (segno che il problema non è propriamente di secondaria importanza) di discutere in convegni, tavole rotonde, interventi critici di traduzione da una autentica lingua d’origine ad una inesorabilmente traditrice lingua di arrivo. E si continua a tradurre.

Ma la questione è sostanzialmente inerente alla traduzione della poesia. La narrazione per lo più, la saggistica (non tutta), il teatro di prosa (non tutto) godono di una facilitazione di fondo: la predominanza dei contenuti, dei significati ed anche dei referenti (per quanto ambigui) rispetto ai significanti.

Ci soffermiamo qui ancora una volta (confidando di non annoiare tanto è manieristica la diatriba) per parlare della traduzione della poesia, non tanto perché ci prema (non ne abbiamo motivo) riprendere un discorso, per l’appunto, forse usurato. Diciamo della traduzione della poesia in quanto vogliamo ancora una volta confermare, per la poesia, l’assoluta valenza della forma. Anche questa è chiacchiera antica che dovrebbe essere già da tempo giunta a una pacifica conclusione. Ma oggi, per l’ennesima volta, il problema della forma in poesia (come in arte e in musica) viene messo in discussione dai prodotti contemporanei della cosiddetta poesia medesima. In cui si vuol assegnare il primato ai facili sentimenti (comuni a chiunque, e in qualunque tempo, senza la specificità d’essere poetici), alle generose ma vane iniziative di ciò che una volta si chiamava impegno, agli stimoli di una banale quotidianità. Tutto ciò che, quando va bene, può essere anche un buon pre-testo, ben poco ha a che vedere con la forma del testo, quella forma fluens che, sola, è materia, originaria, primigenia e, se vogliamo, cosmologica della poesia. Fondante (e chi non lo sa? ma ancora non tutti lo vogliono sapere) del testo poetico quale, nella sua specificità, astrazione totalizzante. In particolare per la sua ambiguità,e plurivalenza,e in-leggibilità come diceva Giuliano Gramigna (cfr. “Testuale”, n.43-44-45 / 2007-2008). Il significato in poesia è non tanto una dichiarazione manifesta, quanto una interiore, profonda potenza della parola e dei suoi silenzi. Delle sue scritture e dei loro spazi bianchi. Il contenuto della poesia (se si può dire di contenuto tuttavia in senso manieristico) è la sua potente assenza, fino al Nulla eckhartiano, di un Dio come Nulla, in quanto impronunciabile, indescrivibile persino a se stesso. La poesia di parola, di segno, di spazio senza tempo, senza parola. Perciò oltre la parola del senso comune, potente parola indicibile.

E’ proprio riprendendo Shakespeare che ci siamo ancora una volta scontrati con il tema della forma e della sua (in)tangibile sostanza. Rileggendo l’incipit del
Sonetto LV anche in relazione ad alcune problematiche traduttive in altra lingua, quando ogni lingua poetica nella sua necessità non fa che rivolgersi al Nulla, nel senso detto, tramite il Nulla. Ma lo fa comunque fondando sulla potenza in-leggibile della parola come materia:
Not marble nor the gilded monuments / Of princes shall outlive this pow’rful rhyme, / But you shall shine more bright in these conténts / Than unswept stone, besmeared with sluttish time.

Allora la parola poetica è marmo più dura del marmo, perciò non è marmo, è potente più dei potenti, è luminoso spazio, libera dal sudiciume del tempo. Ma è già superfluo dire cos’è - è, e basta, nella sua forma unica e nullificata rispetto alla storia e al senso insensato degli orgogliosi contenuti, quando solo in essa sono these conténts:

Not marble nor… pow’rful rhyme… but shall shine more bright…than unswept stone, bemeared with sluttish time…

Not nor… shine more brigt… unswept stone… sluttish time…

La poesia fluisce esaltando gli ostacoli del dire: fa di quelli ostacoli fonici, ritmici, che solo nella propria irripetibile lingua possono rivelarsi e udirsi, gli spazi paradossalmente impercorribili dalla propria fluenza. Come è mai possibile fare
(poiésis) la stessa poesia in altra lingua, con altri segni? Non significano in italiano, per esempio, lacerti materico-fonici, del genere, in una traduzione di Alberto Rossi (Einaudi, 1965):

Né marmo né… versi possenti… ma in questi brillerete di più vivo splendore… che un sasso sconciato dalle sozzure del tempo…

Più onesto e più efficace, del tutto abbandonata la forma dell’originale, Roberto Sanesi (Mondadori, 2000) quando racconta con distesa energia e insieme amorevole, religiosa profezia:

Né il marmo né i dorati monumenti / dei principi potranno sopravvivere / ai miei versi possenti. Ma tu splenderai più luminoso / dentro di loro che su qualche pietra / abbandonata e corrosa da lurido sconcio del tempo.

Non sono versi di Shakespeare, non sono pietre nel tempo del Nulla, non sono ritmi possenti, non sono scansioni spezzate, meteoriti nello spazio cosmologico, non sono
“rime petrose” (solo Dante può esprimere la fatalità del Nulla al duro segno eternale nello spazio): sono i versi di uno dei più sensibili e prestigiosi poeti del secondo Novecento che rispondono alla sua indole pienamente innamorata e languidamente metafisica (i Poeti Metafisici inglesi erano la sua raffinata passione).

Così come definì un poeta traduttore, che si dichiarava dedito a ri-creazioni piuttosto che a traduzioni, parlando di sé avrebbe potuto dire, appunto: “leggo non tanto Shakespeare tradotto-tradito da…, quanto Shakespeare-Sanesi”.

Una scrittrice, poeta, critico, Giuliana Lucchini, ha portato avanti nel tempo una esperienza assai affascinante (cfr.per es. “Sonnets”, Ombra d’Oro Ed.Multimedia, 2000). Fra l’altro ha fatto accompagnare il relativo volume da un CD in cui si registrano voci per Shakespeare e per i traduttori, accompagnate anche dalle interpretazioni musicali di Victor Fenigstein, maestro al Conservatorio di Lussemburgo: accortezza essenziale per valutare la valenza fonico-ritmico-linguistica della pow’rful rhyme.

Proprio con riferimento a questa felice idea possiamo tuttavia non essere del tutto tranquilli su di una affermazione introduttiva di Giuliana Lucchini; “La pretesa di tradurre tali testi – quasi intraducibili per complessità del livello poetico – nasce dalla reverenza e dalla speranza di poter trasmettere in altra lingua, più familiare al lettore (incuriosito forse dalla musicalità di lingue straniere diverse), un tono di poesia che rinfreschi, in qualche modo rinnovi, nella diversità, l’energia dell’originale, e lo renda accessibile a chi voglia usufruirne”.

Non siamo tanto ottimisti per le ragioni che abbiamo appena espresse! Per trasmettere il significato (e non altro) potrebbe bastare una traduzione di servizio, in nota all’originale – per altro anch’essa difficoltosa in quanto i diversi lemmi, seppure o proprio con il sussidio di un buon vocabolario, presentano tradizionali varianti di significati analogici sovente notevoli. Quindi non è propriamente possibile nemmeno la cosiddetta traduzione letterale. Si darebbe comunque per chi legge, con modesta conoscenza della lingua originale, un supporto utile, ferma la necessità di una capacità di lettura di qualche livello. Ma ciò vale, ovviamente, in Europa, almeno per un lettore di lingua latina o sassone: ma, per esempio, che senso ha leggere la traduzione di servizio di un originale in russo, o arabo, o cinese? Se non si conoscano nemmeno i caratteri di quelle lingue? Per chi non conosca il russo la convinzione che Majakovskij sia un grande poeta viene dai traduttori, ma ciò ovviamente non basta in quanto gli stessi trasmettono solamente il senso comune e non il valore della materia di parola. Per chi non conosca il russo Majakovskij sarà un poeta solamente… famoso. Non di più (salvi ovviamente interessi non poetici ma storico-letterari in generale).

Giuliana Lucchini per la sua iniziativa di ricercatrice e linguista (e, ovviamente, poeta) ha affrontato alcuni Sonetti raccogliendone la traduzione – se traduzione
può dirsi – di poeti di diverse lingue: il tedesco Hans Heinrich Meier,
il francese Max Ribstein, lo spagnolo Agustin Garcia Calvo.

Il Sonetto di cui, qui, possiamo dire è ancora il LV al quale già abbiamo accennato. E la lettura nelle diverse lingue le ha fornito l’importante opportunità di esercitare sull’originale una sottile preziosa operazione critico-testuale. D’altro canto, si sa, non si può comunque tradurre prima di una sapiente lettura critica.

Ma leggiamo finalmente l’intero Sonetto:

Not marble nor the gilded monuments / Of princes shall outlive this pow’rful rhytme, / But you shall shine more bright in these conténts / Than unswept stone, besmeared with sluttish time.
When wasteful war shall statues overturn, / And broils root out the work of masonry, / Nor Mars his sword non war’s quick fire shall burn / The living record of your memory.
‘Gainst death and all oblivious enmity / Shall you pace forth: your praise shall still find room, / Ev’n in the eyes of all posterity / That wear this world out to the ending doom.
So, till the judgement that yourself arise, / You live in this, and dwell in lovers’ eyes.

Le osservazioni testuali di Giuliana Lucchini sono innumerevoli e infine essenziali non solo ai rilievi linguistici, metrici e ritmici, ma alla penetrazione del testo, delle sue dismisure altre, del (non)senso profondo, nascosto, della composizione. Forse al di là di certe (lecite e comuni) superficiali piacevolezze di lettura, questo è l’unico modo per metabolizzare quella cosa (nel senso della Kristeva) originaria, prima e ultima, e nullificante per il senso comune, che chiamiamo poesia.

Così fra le acute e diverse osservazioni nota, per esempio che è “impossibile battere i cinque piedi giambici del pentametro inglese sul verso italiano; la prevalenza di parole monosillabiche di origine anglosassone, portatrici di significati concreti e condensati non trova riscontro adeguato nella lingua d’arrivo”. Mentre “il testo d’arrivo in lingua tedesca è perfetto nella ripresa del pentametro giambico [… ]. Quello francese si basa sull’alessandrino con la secca cesura d’obbligo a metà verso [… ]. La versione spagnola perde in enjambement e procede letterale…”.
Nella traduzione italiana di Giuliana Lucchini che riportiamo qui sotto “[… ] si opta per una traduzione interlineare in verso di 13 sillabe (rima piana), il quale, per la sua lunghezza, salva quasi sempre tutto il contenuto [si badi: il contenuto] e, per il ritmo, attutisce il cantabile delle rime, meglio adattandosi a una poesia ‘di pensiero’ oltre che ‘d’amore’.

Seguono nella analisi le problematiche delle rime a fronte delle soluzioni originali, la valutazione delle “parole ‘coppia’ a rilievo dei concetti portanti”. I suggerimenti di alternative, delle varianti in diversi traduttori.

Ed ancora l’analisi delle “peculiarità della lingua che vanno in griglia perdute”. Affermazione importante questa (espressa da Giuliana Lucchini con estrema chiarezza e coscienza), che conferma la complessiva intraducibilità (oltre che per la forma anche per i contenuti) della poesia in transito (rischioso d’ostacoli) dalla lingua originale - superfluo dirlo ancora una volta, la sola autentica per forme, appunto, e sensi. Periglio indubbiamente assai minore per la prosa (purchè non sia prosa poetica, o estremamente sperimentale, o affidata al plurilinguismo e al flusso di coscienza: ciò che vale per Joyce e Gadda, per esempio).

È questa situazione che ci fa optare per il concetto di ricreazione rispetto a quello di
traduzione. Ciò equivale ad un viaggio, a un trasferimento pregno di incognite.
Tuttavia il fascino sta proprio in queste ambigue incognite, questi ostacoli insuperabili ma aggirabili tramite (talvolta squisite) inventive, innovative parafrasi.

Leggiamo il testo di Giuliana Lucchini, meglio, per dirla alla Sanesi, di Shakespeare-Lucchini che, soprattutto nel rispetto della griglia delle rime, tanto abilmente si avvicina, in… avventurosa lontananza, all’originale:

Non il marmo, né di principi i monumenti / Aurei sopravvivranno alla potente rima / Ma tu brillerai, più splendente in questi accenti / Che in pietra in incuria, il Tempo laido la inquina. / Se devastante guerra statue atterrerà, / E orde scalzeranno opere di muratura, / Né Marte di spada né incendio brucerà / Il vivo segno di te a memoria futura. / Contro morte e tutte le obliose avversità / Procederai, tua lode trova spazio infine / Negli occhi ancor di tutta la posterità / Che porta questo mondo a destinata fine.
Così fino al giudizio, ché risorgerai, / Vivi in questo, e in occhi d’amanti abiterai.

La soluzione complessiva appare pregevole, tuttavia solamente per stare all’ultimo verso, risulta ovviamente irripetibile la sonorità seppur concisa di quel … dwell in lovers’ eyes. E anche l’immagine non può darsi con gli stessi presumibili, immaginabili sott’intesi, con le stesse ambiguità: abitare (nel rispetto della rima ricreata) è prammatico, quotidiano, logistico; potrebbe valere invece essere, o stare, o vivere o trovar spazio (senso già preannunciato) in un luogo, il Luogo, quello della poesia, indescrivibile, innominabile, introvabile se non fuori dal Tempo. Un Non-luogo.

Ricreare ha un senso inventivo ed epifanico infine originario: nasce una nuova poesia, un novella poetica.

Che senso può avere invece tradurre secondo tradizione ed uso? Possiamo forse giustificare il titolo di questa non esaustiva breve nota: il gioco della traduzione. Si tratta di un gioco intrigante e, lo abbiamo visto, insieme rischioso per il traduttore. E, altrettanto, con il testo a fronte, per il lettore. Un gioco archeologico che ci fa scoprire solamente alcuni mondi nascosti dell’infinitezza del testo poetico originario. La poesia, per sua natura primigenia, assolutamente inutile, perde molto di sé, ma pur tuttavia ci offre, con la traduzione tradizionale, una utilità, se vogliamo didattica, memoriale, comunque sapienziale, ancorché talvolta, se il traduttore è pure un poeta, piacevole. La ricreazione – che qui abbiamo visto con raffinatezza sfiorata, per esempio, da Roberto Sanesi e da Giuliana Lucchini – riprende l’originale come un tema musicale non solo rivisitato, bensì fatto fiorire da un seme antico. La musica ci fornisce infinite prove in proposito. Possiamo ricordarne una, sublime, fra le tante: il Requiem tedesco di Brahms, dal tema di una cantata di Bach.
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GIO FERRI

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