ARIEL VITERBO, Dimenticarsi, GDS edizioni, Vaprio d’Adda, Milano, 2012, pag.82, 8 euro.
Viterbo è nato a Padova nel ’65, a vent’anni è emigrato in Israele, dove si è laureato in storia e archivistica e lavora alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. Ai numerosi studi che ha pubblicato –incentrati, per lo più, su figure e ambienti dell’ebraismo veneto– si aggiunge adesso questa silloge di versi, che raccoglie le poesie che ha scritto dagli anni dell’adolescenza a quelli della maturità. Il volume è introdotto da Francesca Ruth Brandes, che certifica: “il suo scrivere versi è pratica vitale. Usa magistralmente parole semplici; lui, veneto divenuto israeliano, ha scarnificato nel tempo la lingua madre, fino a renderla pulita, salda e rapida”.
“Da quando so scrivere, scrivo poesie”, scrive Viterbo, e dunque il libro è dichiaratamente un resoconto di viaggio attraverso gli anni e non solo, se alla registrazione del tempo che passa si aggiunge, su uno sfondo che ha l’abissalità di un destino, il resoconto della migrazione dal paese di nascita a quello dell’anima, e dunque il racconto di una storia che è insieme sua personale e di un intero popolo.
I versi mostrano così, fin dall’inizio, l’impronta e le cadenze crepuscolari e intimiste dei temi di solitudine e di spaesamento, accompagnati da uno scorato sentimento dell’umana insufficienza: “da piccolo / piangevo per ogni cosa / […] / Ora che sono grande, / l’occhio è secco / […] / Alla fine del tempo / chiederò che nessuno / pianga per me”; ma il poeta, consapevole della consistenza lessicale e sintattica del suo racconto sentimentale, non tarda a passare su un’altra riva del discorso: “Le parole sono ormai consumate / […] nessuno / ne inventa più di nuove, nessuno / ne trova ormai di vecchie, dimenticate”. Il sentimento, ormai vestito di consapevolezza linguistica, si è fatto storia, e così le parole riescono a farsi terra, una terra promessa brulla ma gravida di promesse: “respirerò il sole bollente / all’ombra del fertile deserto”.
La terra promessa è anche conquista di una casa, ma il nome delle cose, all’interno di questa casa, viene pronunciato in una lingua straniera. Il sogno di pacificazione nel ritorno al luogo di appartenenza collide, in queste scritture, con il richiamo della madre lingua: il discorso in versi di Viterbo suona alieno nella nuova patria, e dunque poetico a tutti gli effetti dello straniamento e dell’inappartenenza.
EUGENIO LUCREZI
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