TIZIANO BROGGIATO : “Città alla fine del mondo” – Ed. Jaca Book – 2013 - pagg. 120 - € 12,00
Il pregio della poesia di Tiziano Broggiato sta nella sua nitidezza. Sin dal felice esordio de Il copiatore di foglie (I Quaderni del Battello Ebro) – come dimenticare testi che oggi sono patrimonio comune, quali Ascoltando Marilyn – attraversando Parca lux (Marsilio) e Anticipo della notte (Marietti), si può , a ragion veduta, parlare di un poeta fedele a una cifra stilistica riconoscibile e, nel contempo, sempre diversa; forse è questione di semitoni, di un linguaggio depistante, come nota Mussapi, di atmosfere rarefatte e, nel contempo, fruibili, ma è il caso di considerare Broggiato un punto fermo della ricerca poetica attuale, imprescindibile quando si storicizza la poesia degli ultimi vent’anni.
Città alla fine del mondo (Jaca Book, 2013) ne è l’ulteriore conferma.
Il libro mostra una partitura accurata, quasi Broggiato filasse una tela narrativa ideale, in cui personaggi e luoghi convivono naturalmente e la realtà, nella complessità odierna, accade per estensione percettiva, ben oltre il punto focale di una macchina da presa che tutto riprende rallentandolo, sfibrandolo in una sorta di luce archetipica, purgatoriale.
È la natura della poesia di Broggiato, poi, a rendere il miracolo: una poesia in cui il dolore convive con una sorta di pietas discreta, empatica. Credo sia dei grandi poeti questo: esprimere una sorta di tremore, un senso di spaesamento iniziale, per poi rivelare il miracolo di una deflagrazione totale, ovvero la situazione tragica prima nascosta, il suo fluire in densità di sensazioni comuni; ebbene, Città alla fine del mondo è così, si muove per partiture, movimenti a strappi, indizi, e rivela, totalmente, la forza di un canto baritonale, avvitante.
A volte è la situazione – montaliana, verrebbe da dire – di un evento apparentemente insignificante : “ dovevo assolutamente oltrepassare / quella donna appena scesa dal tram / Dovevo distanziare subito / quel suo sguardo scuro, / il malessere che mi aveva provocato./ Ne avevo avuto la certezza fulminea: / lei era la Morte (pag. 56); altre, lo è il quadro quasi elotiano della realtà urbana; si vedano, a proposito, gli splendidi Quadri milanesi, la lucida immediatezza di corpi – spettri che si aggirano chiusi nelle loro prigioni incompiute; a volte, invece, l’atmosfera immobile di una sala d’aspetto: in tutti gli occhi vedo / nostalgia o speranza. / La vera forca, a questo punto / è l’inconsistenza del presente./…/ (pag. 55); di certo, il lettore vive l’esperienza, in presa diretta, di una potenza evocativa dei testi, di una continua frammentazione e ricostruzione del tessuto quotidiano in fotogrammi di senso che sono patrimonio comune.
È poi la dimensione corale a fare il resto: le città, siano esse Parigi, Milano, Londra, sono il luogo di altrove , si aprono nella loro densità di attimi, di cose che accadono, o meglio di occasioni che svelano. Ci si sente, insomma, come un “equipaggio di vogatori / dalla canotta bianca /” che “ sfila veloce senza nemmeno / alzare uno sguardo” (pag.17) , intenti a compiere il viaggio tutto di un fiato, eternamente fissi nel movimento, nella sintesi estrema della consegna al lettore di un evento speciale, la poesia.
Broggiato sa cosa ci si aspetta da lui: una mano che tende una presa, anche se minima, latente. Ed è questo che il poeta restituisce, anche nella situazione ermetica, paradossale, o nei riferimenti alle atmosfere purgatoriali del crepuscolo, nell’attesa di un’alba incipiente. Così il viaggio continua, si staglia in fotogrammi impercettibili, strutturali, e la realtà viene ricomposta quasi in modo metafisico, estraniante.
Scegliere un testo esemplare, in merito, è impresa ardua. Forse il punto di massima tensione viene raggiunto nella splendida “Confidando con Sylvia, in una fresca notte di fine agosto” (pag. 64) : il rapporto con il dolore e la morte viene analizzato con lucidità leopardiana, e ci consegna una pagina indelebile di come la poesia oggi possa essere strumento di ricerca della profondità assoluta, della dimensione catartica dell’umano.
Città alla fine del mondo, in ultima istanza, offre l’idea di una poesia epica, per come almeno oggi l’epica può essere intesa: una dimensione corale in cui gli attori, essenzialmente tragici, cercano un barlume di luce, un appiglio per mezzo del quale emergere dal grigiore del quotidiano, e , nel contempo, provano quella rara compiutezza di senso che nobilita l’uomo, lo difende da una realtà reificata, totalizzante.
IVAN FEDELI --
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