NAZARIO PARDINI : " I CANTI DELL'ASSENZA" - Ed.The writer -2015 - pagg.240 - € 14,00 -
Immergersi quotidianamente nelle onde magnetiche della poesia , quella che rimane indelebile e profondamente incisa nella nostra memoria , per un non so che di misterioso e di affascinante , di melodico e di ancestrale , appare quasi sempre come una illusione che il nostro sub conscio incamera per elaborare e riguadagnare particolarmente ad occhi chiusi lo spazio tempo protagonista della scena esistenziale. Il poeta cerca di allontanare la discontinuità che nasce involontariamente dalle immagini , come colore e suono , per rimodellare il simbolo tra la realtà e le singole stravaganze del quotidiano. In presa diretta , senza troppi tentennamenti , il racconto che Nazario Pardini ricama reca un marco di fabbrica inconfondibile, e gli scatti in avanti stimolano un inanellato imprimere delle intensificazioni , un tentativo per allontanare da se ogni falsificazione del rito , scandagliando nei ritagli della speculazione ritmica. – Il canto nasce già variopinto , con una elegia che apre alla visibilità dei sentimenti, mediante incipit ed incisi di una esperienza che attinge ai ricordi e continua nelle immagini. “..Quante sono le sagome sperse/ per strade, per monti,/ sobborghi, marine, /quante ombre su terre diverse/a me sconosciute./Quasi tutto nel nulla s’adagia/ e in me che un notturno/ scolora/perfino il ricordo vacilla.” - Le memorie si perdono purtroppo nello scorrere inesorabile del tempo , di quel tempo che ci rende sempre più vulnerabili ed irriconoscibili a noi stessi , sperduti nello sguardo di chi vorrebbe comprendere e descrivere con più profonda cognizione il susseguirsi dei frantumi, un privilegio che integra le relative apparenze e provoca il privilegio della espressione, sotto una normalità più o meno apparente che si avviluppa a scansioni alternando interruzioni , sconnessioni, disinganni –
“Non sarà più la sera che calante/ annuncia solo un giorno che va via/ coi suoi colori vecchi. Declinante/ il segno non sarà della mia vita/ volta a rammemorare. Alla natura/ riaprire le finestre di un ostello/non varrà che annunciare alle mie mura /colori di serate ritrovate.” Il poeta sa che è arduo essere classicamente contemporanei, ma sa anche che al giorno d’oggi non può fare a meno di esserlo. Di qui la sua ricerca lucida e appassionata che attinge nello straripare dell’assoluto, con richiami al quotidiano , con richiami a ricordi, con richiami a fantasie trascorse. - Leggendo queste poesie si ha come la sensazione che non sia più possibile fare poesia oggi se non aderendo a quel programma espresso così bene agli inizi del Novecento per una «poesia da camera», dove l’occhio avesse anche una sua parte rispetto a quella svolta dalla funzione acustica, ancora inebriata da quella energia mitica, che dava, un tempo lontano, senso alle grandi narrazioni. Nel nostro tempo ci sforziamo di rinvenire il pulviscolo dell’io, mescolato a tanti oggetti tecnologici, virtuali e non. Le riflessioni, le visioni, i segni colorati: realizzano un album di ritratti-digressioni che s’inseguono, una capsula di polveri variegate, dove ciò che si vuole comunicare al lettore è il continuo rimescolarsi degli atomi del vissuto, del pensato e delle associazioni mentali, ossia molto spesso felice aspirazione all’empireo. - La sottigliezza del segno verbale, una sottigliezza che corrisponde ad una acutezza dell’ impegno del cuore e alla capacità di cogliere il senso nascosto delle opere giornaliere e dei loro enigmi, svela gli intenti creativi di Nazario. Una poesia dagli scarti umorali, soprassalti, tensioni, discordanze, che cercano intrecci sorvegliati , impennate dell’io, registri multiformi e cangianti.
Ancora la memoria lavora di cesello, realizza riprese scandite attraverso un ritmo semplice , un ludico corrodersi del pensiero, un contatto continuo con le emozioni, una sintassi delle osservazioni, il comprimere nel ritmo un diaframma che possa svelare ogni sussulto del sub conscio. “Begli occhi che incantate,/ voi splendete del mistico lucore/dei ceri accesi meridiani; il sole/ affoca, ma non lede quella fiamma/fantastica; essi celebran la morte,/ voi cantate il Risveglio; ed incedete,/cantando il risveglio dell’anima mia,/ astri che alcun sole può offuscare!” – Il canzoniere si arricchisce risalendo sino alla delicatezza fulminea delle apparizioni, nella scelta di un prestito dalla vita per verificare ciò che viene messo in scena dalla vita stessa, virare entro uno spazio di finzione per consentire ai suoni di superare la rete dell’abbandono. Così i mistici rintocchi dell’occaso esplodono nella teatralizzazione di alcuni versi scritti per Baudelaire (rivelazione ), per Rimbaud (battello ebbro), per Verlaine (grotteschi), ove brillano le scelte musicali , nella traduzione libera dei testi. Anche il paesaggio , i luoghi della gioventù , le mura del rincorrersi, ritornano nei versi incastonati per illuminare trasalimenti biondi di grano, macchie di ginepri , ondulazioni di nubi, la collina dal grande piano azzurro, la pineta , lo stormo dei piccioni, e rivelano nell’autore la scelta del doppio codice che si libera nell’utopia o incalza nel relativo controllo della ri/costruzione. Non vi è un campo di preferenze lessicali , ma un approdo sicuro che al poeta rimane dopo una sofferta proiezione nei suoi ciclici ritorni: le cadenze che fanno riemergere la voce in quella densità di intonazione che appartiene alle metafore pregne di rappresentazione. Un tentativo di mantenere – quasi in forma di compromesso – l’immagine al riparo dall’erosione temporale; senza tuttavia farla scomparire nella dimensione non temporale, e perciò sempre un poco astratta. Non è una scrittura incline a rinnegare la sua provenienza per farsi custodia di un ricordo. Al contrario, i versi sono consapevoli del duplice rischio cui si espongono – svanire nel tempo o ridursi a un «senso» astratto; perciò non esitano a frantumare se stessi per incidere risuonando. Il titolo del libro vorrebbe indicare al lettore il tentativo di ritrovare quelle cose che si sono magicamente allontanate, ma in gioco c’è una elaborazione profonda, fatta di metafore ed astrazioni, che modifica le proporzioni e le aspettative. Ecco quindi l’idea di una scrittura laboriosa e ricercata, i segni che vorrebbero rinunciare a farsi verità al posto delle immagini, rifiutando di sostituirsi all’immediatezza della visione e creando una dimensione altra.
Raramente la poesia può permettersi di gareggiare con l’esperienza. E l’esperienza diventa vita subito, bruciando il perché della vita stessa fuori da ogni asprezza che nulla ha a che fare con il realismo, con qualsivoglia realismo.
“… Ed è il cielo che crea quella gioia,/ proprio quel cielo/ a cui lo sguardo alziamo raramente/ intruppato in una morsa di fanghiglia./ Se forse gli levassimo le braccia/ per scenderlo fra noi,/ se tutti quanti alzassimo le mani/ per cogliere il suo immenso/e riportarlo a terra,/il nostro volto si farebbe blu,/ blu come gli occhi/di un largo mare azzurro/che rassomiglia tanto a un verso immortalato ..” – La distanza , devota ed affidabile, attraverso il filtro della devozione , avvolge in un alone mistero , che potremmo riprendere nella intemperie sentimentale , nel tessuto della speranza , nel coinvolgimento dello scambio della fantasia.
Antonio Spagnuolo ----
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