"ACQUAFORTE"
Vieni, noi ora andiamo in un refolo di buio,
il tuo volto si affioca mentre cerchi il tuo nome,
noi ora marciamo e aspettiamo la mezzanotte,
un cadavere in spalla, i denti stretti a qualcosa.
Nell’àndito muffito, mia madre barcolla,
un passo, cade, io non peso che un sasso.
Vedi, nel giardino è spuntata la rosa,
è pallida, è muta. Forse sta per sfiorire.
Pare dica qualcosa, forse solo un respiro,
era qui, non comprendo. Era come vivo.
Il cuoio, il legno, le mani dure di mio padre,
quella dolcezza di vecchio che mi disfa il fiato.
Tra me e la morte non ci siete che voi,
compiuto il giorno, non saremo, non più.
Attendere il sonno; non avere da dire.
Un pianto e poco altro; questa piccola vita.
Nient’ altro che granelli di timido rancore
a rodere gli occhi di chi non ha mai visto
la sua stessa carogna sfasciata da miseria
l’esitante azzurro di un falso cielo di marzo.
Quel che resta è fame di ciò che non siamo.
Tradire, taciti, quel che c’è da tradire.
L’onda che muore e che non muore.
La cenere sopra le radici.
*
"ABBANDONO"
Le ombre affilate affondano nei muri
s’allungano s’assottigliano sulle rose pallide
si scuotono impaurite al bisbiglio di una candela
al gelo del nord che scavalca le montagne.
Ho lasciato una zattera sulla riva del mare
l’ho lasciata infreddolire sotto un alito di promesse.
I giorni desiderati, le parole future
sono vele lontane nella barba grigia dell’orizzonte.
Ho venduto la mia casa e ho comprato una vela
camminai sulla sabbia, nel torbato libeccio
nella foschia un marinaio, un ormeggio marcito
ascoltai le teorie di un uomo mentre arrangiava uno spago.
Perché noi siamo niente e tutto ci è nuovo
gettati nei colori esplosi all’improvviso
in iridi bambine che si dilatano dolcemente
in un atroce sogno vibrante di carne.
*
"AURUSPICINA"
Fin dove non si può più vedere
sopra gli enormi, eterni temporali
uccelli sparuti a spasso nel maestrale
con i chicchi nel cuore di quella sacra foresta
dardi di fuoco di assurde virate
mai più ritrovata quella sacra foresta
l’attesa divenne l’origine del passo
il ritorno inteso come impuro fato
digrignando sorrisi nella farsa dell’ora
mai più fui io nell’attimo del debole
un chicco mi cadde nell’assurda virata
a terra i clamori e le genti festanti
nel cielo il dolore di un impuro ritorno.
*
RAFFAELE GUIDA -
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