Lucia Stefanelli Cervelli, “Definitiva”. La preziosa ombra della sera (2011-2015), prefazione di Antonio Filippetti, Istituto Culturale del Mezzogiorno, Napoli, 2015
“Definitiva” è il titolo severo, perentorio, ultimativo, impassibile dell’ultima raccolta di poesie di Lucia Stefanelli. Che è una scrittrice non della domenica, come si direbbe in Francia. Perché Lucia è una che lavora da sempre sulle “sudate carte”. Carte che riguardano la narrativa, la poesia e, molto, il teatro, che lei vive nel concreto sia come animatrice, sia come autrice di testi mandati in scena.
E all’aura teatrale Lucia deve tanto. Questo è l’elemento primo, che impregna di germi vitali il suo immaginario sempre, anche quando lei si applica a registri letterari altri, più coinvolti dalla mimesi, che dalla diegesi in senso aristotelico. Quest’ultima raccolta di poesie ne dà un persuasivo, tangibile riscontro.
Innanzitutto, nel titolo. “Definitiva” potrebbe far capire che il riferimento va al lavoro portato a termine, a cui non ci sarebbe nulla da aggiungere in perfezionamenti e integrazioni. Non è invece così. Perché l’autrice non ha mai guardato, né guarda a un obiettivo del genere, costituito sulla cifra della funebrità e della mummificazione. La sua umorosità destabilizzante, la consapevolezza, derivante da un lungo mestiere, che la scrittura non è un processo di cristallizzazione, ma solo lo specchio di una situazione in transito in attesa di prosecuzioni in collaborazione e correità con il lettore, il suo costante mettersi in questione, non risultano compatibili con un’improvvisa svolta a “u”, con una sottoscrizione di autoreferenzialità magistrale, se non regale fondata sulla certezza di verità conquistate e ferme per sempre.
A dettare quel titolo è la teatralità: si tratta infatti di un grido alla Edward Munch, mandato in scena a verificarsi sotto l’aspetto di invocazione e di vibrazioni in divenire, per suggerire un punto irrinunciabile della ricerca, costituito sull’utopia, che attraversa la storia, che smuove la storia, ma non si cala mai nei risultati, animandoli piuttosto, ma mai lasciandosi catturare dagli stessi. E’ l’invocazione di avvicinamento alla lontananza, a ciò che sfugge, a una meta irraggiungibile, impalpabile, altra rispetto all’orizzonte della quotidianità e della fattibilità.
Lo confessa l’autrice stessa, ripetutamente, ossessivamente in ognuna delle composizioni qui raccolte, dalla prima all’ultima. Intrisa di drammaticità tenuta in sospensione e sotto controllo di calcoli rigorosi, è la prima, che fa da introduzione essenziale a tutte le altre omologhe sequenze e si pone intanto in essere entro guizzi di riflessi di cristallo: “Definitiva /sfugge / la Parola / all’ineluttabile del buio // Saluta la mezzanotte // Dopo tace / impaziente / di impossibili albe” (p. 11). Questa impossibilità di contattare le remote lontananze, sognate, anzi sospirate, questa spasimata cifra di incantesimo sovrano, che non si concede se non nel tormentoso richiamo, fanno comparire sul teatro dell’esperienza umana, in questa silloge, come unica soluzione l’accettazione, nel ritegno, nell’umiltà, nel silenzio, dell’ineluttabilità dell’erranza, dell’andata verso un altrove, che non si potrebbe individuare e collocare in un preciso spazio e in fondo a una precisa direzione.
Come è dichiarato in una delle ultime poesie: “La preziosa ombra della sera /cattura la sagoma imprecisa / e l’assorbe all’assenza / Come dolce il lievitare della quiete antica / Ha memoria di tempi privi d’ogni ricordo / […] Così mi avvio alla notte / ritrovato riposo d’un mattino / scuro ed albale insieme” (p. 58).
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Ugo Piscopo
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