Mauro De Maria, “Beatritz”, Book Editore, 2017, con una nota critica di Giuseppe Marchetti.
Ci sono libri di versi che si aprono fiduciosi al nostro sguardo, che se ci vedono indugiare smarriti ci offrono immediatamente delle tracce, degli indizi, tali da permetterci di proseguire agevolmente la lettura. Ci sono al contrario volumi di poesia più ostici e oscuri, quasi arroccati; la loro parziale impenetrabilità ci tiene un poco in disparte e però, proprio per i segreti che sembrano gelosamente custodire, allo stesso tempo fortemente ci attirano.
Di fronte al primo tipo di libro dobbiamo evitare di scivolare fra le pagine, di credere che la lettura sia facile (troppo facile); nel secondo caso dobbiamo invece evitare di arrenderci presto (troppo presto), di abbandonare subito il campo, di non accettare la sfida.
Le raccolte di versi di Mauro De Maria, sia il primo e precedente “Trame e orditi” sia, soprattutto, l’attuale “Beatritz” (entrambi pubblicati da Book Editore), hanno l’aspetto di una fortezza compatta, dove i pieni prevalgono sui vuoti, dove non si scorgono comode vie di accesso. Allora bisogna prendere tempo, girare pazientemente attorno ai suoi recinti finché, come premio della nostra costanza, all’improvviso si spalanca una porticina che ci invita ad entrare.
Una volta dentro, scenari e paesaggi radicalmente mutano. Ci si trova proiettati e immersi nel medioevo prezioso e incantato dell’amor cortese, dei trovatori e dello Stilnovo. Nella “Nota a margine” l’autore di questo libro davvero originale, insolito e sostenuto da notevoli maestria e abilità stilistica, precisa: “Beatritz si configura come una riproposizione, il più possibile personale, dell’idealizzazione della donna amata e della sua trasformazione in una sorta di figura angelicata. Al contempo abbondano nel testo dichiarazioni di fede nell’arte e nella poesia che divengono elementi di potenziale superamento del tempo e si delineano come un credo parallelo a quello della donna trasformata in elemento divino”.
Beatritz è la principale, quasi assoluta protagonista. Evitiamo qui di inoltrarci e di lasciarci irretire dal labirinto di citazioni e riferimenti colti, limitandoci a segnalare, per il momento, che le poesie (cinquanta, più un incipit e un congedo) formano una coesa collana di versi dove la parola conclusiva di ogni singola composizione diviene quella iniziale della successiva. Giustamente il critico Giuseppe Marchetti, nella sua Nota conclusiva, sottolinea che l’opera di De Maria è “una conversazione ininterrotta con l’oggetto amato”.
L’amore di cui nel libro si parla è fondato sulla gentilezza d’animo e dei modi; è casto e spirituale. Tra innamorato e amata si frappone una distanza incolmabile, ad ogni slancio in avanti del primo segue uno spontaneo retrocedere della seconda. E questa impossibilità di raggiungersi, di sfiorarsi, di toccarsi, genera contemporaneamente sofferenza e desiderio. L’incontro è perennemente rinviato e procrastinato, il tempo dell’attesa si dilata a dismisura; “la compenetrazione di due corpi” e la fusione di “due esistenze” si rivelano mete impossibili. Lui (“il vinto trovatore”) e lei (la “dama irraggiungibile”) si muovono all’unisono e in maniera sincronica, mantenendo inalterata la loro distanza. Non esistono varchi e scorciatoie, esiste invece un “flusso d’amore / che migra verso te ogni giorno / varcando le colline / e di notte riporta tue notizie / avanti e indietro senza posa”.
Al poeta non resta che tradurre in versi questo amore sfolgorante e sfuggente, intenso e negato; alla poesia spetta la magia di farlo vivere in parole e di renderlo memorabile: “Guardare la tua vita a me negata / ha mutato i miei tremuli silenzi / in parole posate sulla carta / nella fragile attesa che i tuoi occhi / guidassero nei solchi della stampa / anche il tuo cuore che il mio sempre scarta”.
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Giancarlo Baroni
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