lunedì 4 giugno 2018

RASSEGNA = FRANCESCA LO BUE

LA POESIA DI FRANCESCA LO BUE--

La poesia di Francesca Lo Bue si inserisce, del tutto naturalmente, nel grande filone della poesia metafisica novecentesca, in senso più generale simbolica; vale a dire nel solco di quella nuova concezione della funzione e del linguaggio poetici, che si manifestò a partire dall’inizio del Novecento.
Per comprendere correttamente il messaggio di Francesca Lo Bue, e soprattutto i temi e le forme del suo linguaggio, dobbiamo, dunque, tenere ben presente l’esperienza ‘metastorica’ della poesia novecentesca, per così dire, che, avviatasi col superamento della poesia di ‘contenuto’ tipica dell’Ottocento, affida soprattutto al significante e al sovrasenso della parola l’essenzialità del messaggio poetico.
Ci mette sulla buona strada la stessa Francesca Lo Bue nell’Introduzione alla sua ultima opera poetica, che, già nel titolo – Itinerari, Itinerarios, Società Editrice Dante Alighieri, 2017 –, è tutto un programma: cammino, alla ricerca di sé e delle sue origini; ricerca come esigenza insopprimibile, peraltro, per chi, come lei, nata in Italia ma trasferitasi bambina in Argentina e poi tornata nel nostro Paese, ha dovuto necessariamente cercare la propria identità in due universi linguistici certamente complementari eppure appartenenti a modalità espressive diverse (benché questo, questo appartenere anche alla grande tradizione lirica spagnola e latino-americana, abbia alla fine arricchito la gamma del suo linguaggio poetico).
‘Il libro presuppone il lettore, perché la storia, di per sé obliata, si vivifica quando c’è un lettore. Leggere significa essere il libro che si legge, e il lettore, fra i meandri della scrittura, diviene un argonauta che ritrova sé stesso. … Perché chi legge immette nel libro una nuova lingua, la sua lingua e, così, la lettura è un nuovo libro. … La poesia è il libro per eccellenza….La poesia non spiega ma solamente suggerisce’ (op. cit. Introduzione).
In queste definizioni di Francesca Lo Bue della poesia e del ‘libro’, e dell’identificazione del libro col lettore stesso non c’è solo Jauss, con la sua ‘teoria della ricezione’ (per cui se il pubblico non prova interesse e non interagisce attivamente con l’opera, l’opera muore), ma anche tutto il dibattito novecentesco sulla parola significativa.
È attraverso il Libro, agglomerato di parole ‘significative’ per eccellenza, che Francesca Lo Bue ci conduce alla ricerca di sé e di noi stessi.
Ed è il libro il protagonista dichiarato fin dalla prima lirica di Itinerari, ‘Casa antica’ («Arrivo e porto il Tuo Libro», ‘segno’ della ricerca originaria del Padre e della Madre), ma anche, di nuovo, ne ‘Il libro oscuro’, dove l’interrogativa iniziale, aperta dalla similitudine ossimorica «Il Tuo libro è oscuro come il sole meridiano», avvicina il lettore, o meglio lo invita, a non abbandonare mai il «libro» pur «oscuro della Poesia», in quanto unico mezzo di procedere nella notte (la ‘nostra’ notte senza il ‘libro-Poesia’) verso la «Conoscenza», verso la «dimora dove ardono i ceppi del focolare» (Itinerari, pag. 10).
Nonostante la dominanza (apparente) del buio, della non conoscenza, la poesia si apre e si chiude con bagliori di luce («…il sole meridiano»; «…i ceppi del focolare»; ma è il lettore, insieme all’io poetico, che deve farsi ‘argonauta’ di sé stesso, che deve cogliere nella poesia quella ‘parola che cerca sé stessa, che vuole essere completata e moltiplicata’ (v. Introduzione, pag. 4). E se è vero che ‘il poeta è il navigante che cerca la salvezza nel divenire delle acque’ (ibidem, p. 4), è altrettanto vero e indispensabile che il lettore non sia da meno, che non sia spettatore passivo, ma nuovo ‘autore’, perché ogni ‘lettura è un nuovo libro’.
Carattere dominante della poesia di Francesca Lo Bue è, dunque, la ‘ricerca’: e i temi della sua poesia (la luce, i miti, i colori, le radici – il Padre, la Madre, compresa quella Celeste -, la Fede e la speranza della pace – l’auspicio che, con la lirica L’iride, chiude il libro –) attraversano tutta quest’ultima raccolta poetica della Lo Bue, che sembra riassumere e ribadire, rinvigorendole, le tappe costanti dell’indagine interiore della poetessa.
La tecnica di Francesca Lo Bue si fonda su soluzioni poetiche e figure tipicamente novecentesche, su immagini allegoriche, metonimiche (‘parole addormentate’, ne I libri aurei) e metaforiche (es.: la ‘tenda delle maschere’, ne L’umiltà), spesso metafore ‘forzate’ come le numerose catacresi (‘marea del sole’, ne La poesia; ‘gocce di sillabe e lettere’, ne Il libro oscuro; ‘legioni del cuore’, ne L’iride).
Lo scopo, al di là di quello, dominante, di cercare le proprie ‘ragioni di sé’ nel significato profondo dei propri miti familiari e personali, è sempre quello di indurre il lettore ad accompagnarla in questa ricerca, ad immergersi con lei nel ‘Libro’ della nostra comune esperienza di uomini; dove il poeta è sì la ‘guida’, ma
soprattutto colui/colei che solo con gli altri, nella comunione spirituale con gli altri, può davvero aiutarsi a trovare il senso ultimo della propria esistenza. Ed ecco perché questa ricerca è ininterrotta: essa dura quanto la vita.
Ed ecco anche perché, proprio a causa della sua ‘durevole’ complessità, una poesia puramente descrittiva non avrebbe mai potuto soddisfare questa esigenza di ‘conoscenza’, che è una esigenza esclusivamente interiore, certamente non esauribile in semplici riferimenti oggettivi, per quanto, pure, di cosiddetto simbolismo sul modello primo-novecentesco potessero caricarsi.
D’altronde, le due lingue, entrambe profondamente ‘sue’, di Francesca Lo Bue consentono alla poetessa possibilità espressive di sicuro molto più variegate e aperte di quanto non siano quelle di altri universi poetici: sicché l’ideale sarebbe che anche noi conoscessimo ‘bene’ sia l’italiano sia lo spagnolo.
Ad ogni modo, anche la lettura di una sola sua lingua poetica ci consente di delineare sufficientemente «una mappa semantica» – come bene afferma Emerico Giachery – delle parole-chiave del Libro, che costituiscono il ‘filo rosso’ di tutta la poesia di Francesca Lo Bue.
Per la quale rimane pur valido, infine, quanto lo stesso Giachery sostiene in generale, e cioè che per la poesia di questa poetessa è «meglio non affidarsi a metodi troppo tecnicamente filologici… Meglio, per ora, affidarsi al respiro lirico, lasciarsene avvolgere, cercare di sintonizzarsi col suo segreto».
Ecco: il ‘segreto’ è l’essenza della poesia, per chi, come appunto Giachery, allievo di Ungaretti, richiama allusivamente, forse, o forse volutamente, la conclusione del poeta del M’illumino d’immenso sull’impossibilità, alla fine, di capire ‘tutto’ il mondo poetico di un autore («La parola è impotente e non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi»).
L’importante è che siamo disposti a tentare il tutto e per tutto per tentare di farlo.
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Massimo Desideri

Aprile 2018

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