Antonio Spagnuolo, “Canzoniere dell’assenza”, prefazione di Silvio Perrella, Napoli, Kairós Edizioni, 2018, pp. 92, € 12,00
Note critiche di Cinzia Baldazzi-
Superare la morte, nel caso specifico di una persona amata, non nel senso di ignorarne l’accadimento, bensì di saperne difendere la concretezza quotidiana, la presenza, o l’absentia in chiave di dialettica negativa, costituisce il frutto di un grande complesso del pensiero anche in termini poetici. Il filosofo elisabettiano Francesco Bacone ha asserito: «Poësis doctrinae tamquam somnium» («La poesia è come un sogno di dottrina»): tutt’oggi, presumo la maggioranza di noi risulti convinta di come, per intendere i messaggi in versi, sia indispensabile appellarsi a un animo mutevole, immune da pregiudizi, diffidente ad antinomie giusto-sbagliato, vero-falso, reale-immaginato.
Per giungere a simile comprensione – la raccolta “Canzoniere dell’assenza” di Antonio Spagnuolo contribuisce a provarlo – è necessario in primis scartare l’idea che la ποίησις (poíesis), assolvendo una funzione prettamente estetica o di insegnamento morale, sia “costretta” a scegliere di cantare il presente, o rievocare il passato, oppure rincorrere il futuro. Tutto insieme, invece, si ritrova nella dialettica poetica, là dove Spagnuolo assegna alla poesia il compito di parlare di se stessa: inseguendo «sillabe perdute / tra i versi ancora incerti» (“Incertezze”); o, magari, quando «nell’irrequieto contrarsi delle mani / sboccia una triste poesia» (“Rosso”); infine, nell’ammissione «non so trasformare lacrime in versi e versi in lacrime» (“Specchio”).
Di sicuro, è indispensabile molto coraggio nell’affrontare l’onda lunga del sogno “ri-creato” mentre si combatte con la mancanza immediata, con la sconfitta di una lotta inutile da professare. Lo storico olandese Johan Huizinga, precisando «il poeta è “vates”[…], il sapiente, […] il più saggio delle creature», lasciava presagire come fosse sempre essenziale e prezioso, nel contesto, il sostrato di «una situazione di vita umana o un caso di passione umana» adatti a comunicare tensioni importanti, energiche, tali da affascinare il lettore o l’uditore.
Nel “Canzoniere dell’assenza”, lo scrittore è all’altezza di percepire, trasmettere - in particolare nel già citato “Rosso” - un «continuo non esserci, intriso di malinconia» adeguato ad avvolgere «nelle proprie trasparenze / un’ultima illusione della carne», e ad aprire «la magia dell’ansia senza più una scusa», in una vicissitudine causata dalla dipartita di Elena, l’adorata compagna di vita. Il mitico nome della splendida donna che, per leggenda, scatenò l’epocale guerra di Troia, nel nostro autore accende un altrettanto bellicoso scontro tra il verdetto mortale di condanna alla scomparsa fisica, materiale, e il tentativo della forza dell’immaginario, del desiderio, dell’utopia, di risarcirne in qualche modo l’assenza.
Ma, ancora a parere di Huizinga, «la distanza fra esistere e intendere può essere coperta soltanto dal contatto prodotto dalla scintilla dell’immaginazione». O meglio: «La parola che raffigura e rende un’immagine avvolge le cose di espressione, le rischiara coi raggi della comprensibilità. Mentre tuttavia la lingua della vita quotidiana, come strumento pratico e generalmente accettato, consuma di continuo l’indole immaginativa di ogni espressione in parola, ed acquista una indipendenza strettamente logica in apparenza, la poesia invece continua a coltivare intenzionalmente l’indole figurativa della lingua». Sarebbe a dire: il codice della “poetry” “significa”, indica senza “empasse” quanto comunicato, distante da censure pregiudizievoli.
Dunque, sebbene leggiamo ne “Il segno” che una «eccezionale insistenza» non riesce a cancellare «la tempesta dei gesti che incidemmo, / il riflesso di una piacevole ombra / che scivola con insistenza», il successivo “Follia” avvisa, quasi in contemporanea: «Il passo lascia un segno ancora vivo / anche se il copione è coppa fuori tempo / esatta fuga che scioglie il fulgore di una follia».
In sostanza, “Canzoniere dell’assenza” racchiude in sé la trama tecnico-intuitiva di un contesto lirico in grado di procedere di pari passo con la visione di un misticismo deciso, figurato, con il point of view di originaria intermediatezza tra ricordo ed esistenza in atto, memoria e tracce di un passato dissolto. Il paradigma di vocabolo-contenuto così emerso eleva singolari e avvincenti armonie di suoni, vibranti nell’aura universale, nell’immanenza, dove il sentimento dell’autore mai appare inerme, né rassegnato alla resa all’oscuro disegno di un cosmo indifferente, chissà, perfino ostile. Antonio Spagnuolo ripropone in chiave inedita quel movimento di “poíesis” novecentesco definito da Luciano Anceschi come qualificato da un taglio di «accrescimento della vitalità»: tale esito non l’ha ottenuto veicolando un messaggio sulla morte, piuttosto su quanto l’arte e la sua “poietiké tekné” possano orientare la potenza di risoluta volontà di apertura, di liberazione, di contatto con il passato a vantaggio del presente o del futuro, proprio in seguito ai danni inestimabili causati dalla fine terrena.
La scrittura poetica del libro, una sorta di dialogo con noi interlocutori, è costruita su un intreccio semiotico al cui interno pure scelte stilistiche e semantiche si combinano in un divenire drammatico, forse tragico, ma di proposito discontinuo: nondimeno, capace di generare un’ansia quasi romanzesca in cui l’impegno di chi la coglie è comprendere se in quella metafora, in quell’unità lessicale, sia questione di vita o di morte, di realtà o finzione, di svolte quotidiane o di una esplicita chimera. Solo a coloro che leggono, e ogni volta che leggono, tocca la risposta.
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Cinzia Baldazzi
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