Michele Miccia, Il ciclo dell’acqua – Parte del ristagno, Casa editrice L’arcolaio, 2019
Giunge alla sua quinta tappa l‘importante progetto poetico di Michele Miccia intitolato complessivamente Il ciclo dell’acqua e che si articola in diversi momenti e fasi tuttora in fieri. L’ultima recente raccolta, Parte del ristagno, procede in continuità con le precedenti Parte di sotto, Parte di dentro, Parte di mezzo e Parte di fuori, ma allo stesso tempo evidenzia una autonomia che la distingue, una personalità che la differenzia. Il complesso e ampio progetto dell’autore si dimostra dinamico e in evoluzione, capace di generare nuovi capitoli collegati fra loro ma dotati di una loro parziale autosufficienza. I cinque libri sono accomunati dal tema del corpo ma possiedono ciascuno una parola chiave che li contraddistingue. Nella Prefazione a Il ciclo dell’acqua – Parte del ristagno Giovanna Piazza nota che nelle novanta liriche che compongono il libro l’immagine dominante è quella della porta.
La porta è una metafora intramontabile e potente, ricca di significati anche opposti, di sfumature e di suggestioni. Ha a che fare con il rapporto duale fra dentro e fuori, inclusione ed esclusione; la porta si apre e si chiude, accoglie e respinge, divide e collega, è limite invalicabile e varco spalancato, è soglia che separa e che unisce, è “…un incontro nello scontro”. La soglia è vista da Miccia non come una linea-frontiera rigida e definitiva, ma come “un luogo di opinioni / sempre in evoluzione” che nasce da uno scambio e da un confronto dialettico, è un confine attraverso cui passa e transita ogni cosa (“per diventare commercio ogni cosa / deve passare da una soglia”). La porta è un oggetto formato di parti (cardini, serratura, ingranaggi); attorno alla porta cresce una casa con le sue stanze e camere (“prima è nata la porta / e poi le stanze”), i suoi arredi, con la famiglia che vi abita, le persone che la frequentano e i corpi che si incontrano e si toccano (“carne contro carne che nuda / si ammutolisce in un abbraccio”).
Serrare la porta, chiudersi dentro, allontanare e lasciare fuori la minaccia, si rivelano dei palliativi e delle illusioni: “Sprangare la porta non è / necessario, l’altro è già / dentro e lei non lo vede, / era qui prima di ogni / altro inquilino…”. “La porta”, scrive lucidamente Miccia, “è un’idea / smarrita di sicurezza…”, nemmeno blindata riesce a garantirla.
La casa è per l’autore un corpo (“corpo casa”) che si restringe e si dilata, un organismo vivente che respira (“la stanza respirava”), uno spazio fisico e mentale, spigoli e superfici, soffitto e pavimento, “muri ricoperti dalla brezza / della tappezzeria infiorata”. La casa può essere anche soffocante, una specie di tana opprimente dove lo spazio si stringe e impedisce ai corpi di allungarsi e crescere, un rifugio angusto e posto sotto assedio: “Notizie da altri fronti / s’infiltrano sotto la porta, / diventano spifferi che / gli mutilano le caviglie, / chiude tutte le fessure sigilla / le finestre e gli scuri, / applica giornali sui vetri, / provviste sparse dappertutto”.
Quelli di Miccia sono versi visionari che si esprimono con toni misurati e distaccati e che sanno trasformare incubi, labirinti, allucinazioni, angosce e paure, in originale e profonda poesia.
Giancarlo Baroni
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