Arnold de Vos – Ode o la bassa corte dell’amore--Puntoacapo Editrice- Pasturana (Al) - 2019 – pagg. 87 - €10,00
Filologo, archeologo, giunto a Roma dall’Olanda nel 1968 e, poi residente a
Tunisi, Trento e Selva di Grigno in Valsugana, de Vos è stato poeta in olandese, e in
seguito in italiano. Ode o la bassa corte dell’amore è un testo originale per le
tematiche che in esso si sviluppano ed è scandito in due sezioni, quella eponima e
Ode; l’originalità di questa composita e articolata raccolta di poesie, che hanno una
certa tendenza alla liricità, per l’effusione in esse della voce dell’io-poetante,
consiste, come scrive Adele Desideri nella prefazione, nel fatto che, in questo libro,
de Vos si rivolge a un interlocutore ben identificabile, un giovane uomo, al quale
dedica la maggior parte dei suo versi; in questa figura, in questa presenza, il poeta
trova la fonte del desiderio e la realizzazione del piacere, la guida dei giochi erotici.
Egli è in fondo il simbolo narcisistico della sua inquietudine. È presente un forte
senso del sacro, in questo testo, congiunto ad una forte tendenza all’estetismo e,
molto spesso, erotismo e misticismo si toccano. Il poeta riesce a farci entrare in una
dimensione dove dominano l’attrazione fisica e il desiderio del piacere, dimensione
che è, nello stesso tempo, delicatissima e sensuale. È una scrittura vaga e complessa,
quella dell’opera che prendiamo in considerazione in questa sede, caratterizzata da
una forte densità metaforica e sinestesica. Le poesie della prima sezione del libro
sono scritte quasi tutte in lunga ed ininterrotta sequenza e presentano quasi tutte un
titolo. C’è spesso un fluire barocco dei versi sulla pagina e molti componimenti si
risolvono in un unico respiro, in tante frasi che sgorgano l’una dall’altra. A livello di
giudizio critico sul nostro, sono centrali le parole di Iulio Monteiro Martins e quelle
di Giorgio Bàrberi Squarotti: il primo afferma che de Vos, siccome appare poco
immigrato, viene penalizzato, sorte comune ad altri poeti, mentre il secondo afferma
che la sua poesia sa reinventare il gioco amoroso delle parole: sono questi i due dati,
la cifra, il punto focale, la luna attorno alla quale gravitano l’autore e la sua vita,
come dice Alessandro Canzian nella postazione., aggiungendo che seguire il canto di
Arnold de Vos non è certo un’operazione semplice e tantomeno è cosa da
sottovalutare semplificando: infatti i rimandi interni alla struttura architettonica della
sua poetica sono forti, pregnanti, tali da assomigliare a una rete di tessuto che prima
di vestire investe, a una ragnatela che imbriglia seppure al contempo illumina. Il
poeta, nei versi di Ode o la bassa corte dell’amore, esprime, per il fatto che l’iopoetante
sia una figura adulta, che tende al rapporto erotico con un ragazzo, un’idea,
una concezione, che si potrebbe leggere come riflesso dell’ideale del rapporto tra
docente e discente nella Grecia antica, relazione che, oltre al dato intellettuale, aveva
una valenza erotica e sessuale, allo studio si aggiungeva l’amore omosessuale. Quella
affrontata da de Vos è una materia scabrosa, che non cade mai nella volgarità o nel
pornografico e il rapporto erotico del poeta con l’interlocutore (che non risponde
mai), sembra, nella ricerca ossessiva del piacere, la sorgente massima di felicità per
l’io-poetante, che è sedotto dal corpo nudo dell’amato, quasi che esso sia un’opera
d’arte. Pare che l’atto erotico, nell’inverarsi nei versi, divenga esso stesso un’opera
d’arte. Leggiamo il componimento intitolato La pietra filosofale:, tratto dalla sezione
eponima:-“Sotto la stufetta elettrica sospesa a mezz’aria/ il tuo bottone anche nelle
giornate di caldo/ ha freddo e bisogna far salire/ la febbre da sesso, ne sei malato/
anzi la tua anima chiede con insistenza/ di non guarire, e si agglutina nel lenzuolo/ la
tua stalagmite tormentata dal fohn/ nell’antro stretto tra le gambe/ ove il sole non
arriva se non nella forma di una mano/ che ti piace immaginare cristallina,/ lo
stillicidio di te stesso/ che tra i tanti alambicchi reali e immaginari/ ti preme di più,
come la parola/ alla fine del lungo corpo a corpo con la poesia”-. C’è in questi
versi di conturbante bellezza, tutta la tensione emotiva (amorosa – erotica) verso
l’interlocutore, che è rappresentato in un letto in una giornata di caldo, mentre nelle
fibre del suo corpo sente freddo; deve salire la febbre da sesso del giovane, febbre
dalla quale non è bene guarire, presumibilmente stando sempre sul punto di
consumare l’amore e nel consumarlo: quindi il giovane non deve né vuole guarire:
viene detto lo stillicidio del “tu” al quale ci si rivolge, stillicidio che premia e che
potrebbe essere l’atto sessuale stesso, visto come oasi nel mare magnum della
quotidianità; nei versi finali la tensione erotica dei due amanti viene paragonata al
corpo a corpo del poeta con la poesia stessa: quindi, tutto il componimento, che è una
poesia, alla fine si riflette su se stesso nel nominare la poesia stessa. La pietra
filosofale, detta nel titolo, potrebbe simboleggiare, per un’alchimia dei sensi e delle
anime, il tradursi di un rapporto torbido, ai limiti della pedofilia, in un fare sesso, che
porti, in una dimensione estetica e rarefatta, ad una gioia, seppur sfuggente, intensa
per entrambi i patner: c’è, in questo tipo di rapporto, anche la dimensione
dell’attingere dalle zone più profonde dell’anima, in uno svelarsi con estrema
delicatezza dei due amanti. Nella seconda sezione Ode, il connubio erotismomisticismo
pare intensificarsi, nell’intensificarsi del sentimento del possesso
esclusivo del poeta nei confronti dell’interlocutore:-“ Saresti una bellezza inutile:/
non puoi appartenere a nessuno./ Fai scorrere sangue sotto la pelle/ senza che abbia
sbocco, attesti/ l’inutilità di certune esistenze./ Se Dio ti ha creato per questo, sbatte/
la tua bellezza in faccia ai progetti/ transindividuali, svuotandoli del contenuto: può
essere./ Ma la tua bellezza ti svuota anche di te,/ se la desideri. In questo siamo
uguali/ a fianco del tuo fianco, cornucopia/ che mi riempi il cuore-”: qui c’è il tema
della bellezza, una bellezza inutile, nel caso l’interlocutore non voglia appartenere a
nessuno e che lo svuota di sé stesso. Alla fine del componimento l’amato viene detto
come cornucopia che riempie il cuore del poeta, a dimostrazione della fortuna sottesa
alla felicità, che può dare un vero amore; un esercizio di conoscenza tra i sentieri
dell’eros intellettualizzato, ai limiti estremi del sacro e dell’arte.
*
Raffaele Piazza
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