giovedì 28 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = GABRIELLA CINTI

Gabriella Cinti, Euridice è Orfeo, Achille e la Tartaruga, Torino, Prefazione di Giovanni Schiavo Campo

Già in altra occasione lo affermammo, con gioia nascosta e affettuosa complicità, che i versi di questo libro poetico, "Euridice è Orfeo", di Gabriella Cinti può per economia estetica generale a buon diritto collocarsi nel grande alveo del "metodo mitico". Quel metodo, che ha fatto grande certa parte della Letteratura mondiale, magistralmente praticato dal Joyce di Ulisse, dal T. S. Eliot de La terra desolata, da Derek Walcott di Omeros, con una poetica incentrata sulla indicibilità di un mondo nel quale "i segni dello sfacelo sono il sigillo dell'arte moderna" (T. W. Adorno).

Un mondo tanto sciatto, decadente, chiassoso da indurre i poeti a rivolgersi al mito quale unica via per aggirarne la volgarità. Esemplarmente a hoc sento questi versi sui quali giova meditare:

" […] Possa il fruscio delle vesti mai avute,
dell'abito d'ombra che Moira mi ha tessuto,
essere la vera lira del tuo canto
e tornare agli dei per la strada dell'Uomo."

Versi nei quali dottrina e inclinazione alla pienezza di canto segnalano una voce poetica, quella di Gabriella Cinti, capace di un totale distacco da tanto pseudolirismo novecentesco nel quale un "Io" poetante narcisistico, piccolo-borghese, accartocciato senza scampo sulle psicopatologie d'una vita quotidiana senz'attese, è stato il nucleo piangente e non di rado narcisisticamente autoreferenziale.

Anche la Cinti usa l'Io, ma questo “IO” cintiano è relegato ai margini dei versi e ridotto a un rumore minimo di fondo, visto che quest'Io tende leopardianamente a universalizzarsi, aggregandosi intorno alle verità del mondo e delle cose nel tentativo e nella aspirazione d’un innalzamento estetico e morale per «tornare agli dei per la strada dell’Uomo».

Sotto tale aspetto, il lettore diciamo "sprovveduto" potrebbe essere indotto a considerare l'esperienza poetica di Gabriella Cinti come "esperienza lirica". Nulla di più errato perché il poeta lirico da sempre fra sé stesso e la verità delle cose sceglie sempre sé stesso; mentre la Cinti affida al suo “Io” poetante lo sguardo severo e luminoso che mai si spicca dalla verità del mondo, né dalle atrocità e dagli oltraggi del tempo e della Storia. E poi la Cinti di questa esperienza poetica quasi rifonda i miti e li rivisita dal versante della donna in poesia, estraendo dalla mitologia classica le sensibilità e le nuances delle figure mitologiche femminili tra nitidezza espressiva e icasticità del dettato poetico in cui senso e suono si fondono, si incastrano a favore del lettore.

Se la Divina Commedia dantesca è il poema delle stelle, questo lavoro poetico della Cinti è esperienza di poesia intrisa di luce, impastata di luce, già dai suoi primi versi che annunciano una "poesia pensante" (Dante, Leopardi, Montale) sostenuta da folgoranti immagini metaforiche della migliore poesia scandinava (Espmark, Trantrömer, Gustfsson) del Novecento e post-Novecento poetico europeo, in una vitalità linguistica nella quale non di rado ci disponiamo a scorgere e ad accogliere vive tensioni verso una “ Nuova Ontologia Estetica “ che, com’è ormai noto, ha bisogno del linguaglossiano “Spazio Espressivo Integrale” per toccare l’acme del dispiegamento delle forze interne a ciascun verso, del tempo interno a ogni parola. Gabriella Cinti possiede armi e cultura per mettere il vento nelle sue vele e spingersi nella sua ricerca poetica verso questi nuovi, modernissimi approdi, sulla rotta tutta da esplorare verso una sua patria linguistica.

Con Euridice, che incarnando «amore nudo e potente» fino al sacrificio estremo e che pronta ad azzerarsi reca in dono a Orfeo un «canto vero, di carne», Gabriella Cinti ci lascia un messaggio in bottiglia di utilità dell’ars poetica, un sempre possibile «regalo di luce».
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Gino Rago

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