lunedì 11 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = MARINA PETRILLO

Marina Petrillo, materia redenta, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2019, pp. 100, € 12

Per una interpretazione della Poesia di Marina Petrillo dobbiamo pensare la poesia come Luogo d’incontro, Meditazione attiva, Parola implicata, Poetica dell’archeologo e Viaggio verso una patria linguistica dove le parole siano familiari. Scrive Tomas Tranströmer nel risvolto di copertina del libro di esordio 17 poesie (1954): «Le mie poesie sono luoghi di incontro. Vogliono stabilire un legame inatteso tra parti della realtà che le lingue e i modi di vedere convenzionali sono soliti mantenere separate. Piccoli e grandi dettagli del paesaggio si incontrano, cultura e uomini differenti confluiscono in un’opera artistica, la natura incontra l’industria e così via. Ciò che ha l’apparenza di un confronto svela un legame. Le lingue e i modi di vedere convenzionali sono necessari quando si tratta di relazionarsi col mondo, di raggiungere scopi limitati e concreti. Ma nei momenti più importanti della vita abbiamo spesso sperimentato che non funzionano. Se riescono a dominarci completamente si va verso la mancanza di contatto e la rovina. Considero la poesia, tra l’altro, come una contro tendenza nei confronti di questo processo. Le poesie sono meditazioni attive che non vogliono addormentare ma ridestare». Sotto questo aspetto la raccolta poetica “materia redenta” di Marina Petrillo va letta proprio come luogo di incontro di istanze morali, psico-filosofiche, esistenziali, estetiche nel punto di intersecazione tra pensiero e immagine, filosofia e misticismo, esperienza e travaglio del vivere, scandaglio religioso e urgenza laica, in una riflessione continua sul tempo e sullo spazio e all’interno di un muoversi tra luoghi e non-luoghi, in una visione quadri-dimensionale (affidato all’ingresso della memoria nel tri-dimensionale del mondo) dello stare al mondo cui non sono estranee aspirazioni al ricongiungimento con il divino in forma di ansie mistiche, sulle orme di certa poesia di Cristina Campo, di Maria Rosaria Madonna e, in parte, anche di Laura Canciani.Leggiamo questa poesia di Tomas Tranströmer: Aprile e silenzio «La primavera giace deserta./Il fossato di velluto scuro/serpeggia al mio fianco/senza riflessi./L’unica cosa che splende/sono fiori gialli./Son trasportato dentro la mia ombra/come un violino/nella sua custodia nera./L’unica cosa che voglio dire/scintilla irraggiungibile/come l’argento». [da La lugubre gondola, Rizzoli, 2011;traduzione di Gianna Chiesa Isnardi]. Analizzando questo concentrato, denso testo di Tranströmer, è facile notare che l’autore de “La lugubre gondola” si affida a una parola poetica essenziale, concentrata, evocativa, metafisica e con questa parola, non con altre parole, tenta l’immersione nella contemplazione del paesaggio naturale che nel poeta si fa specchio di quello dell’anima, [ecco lo specchio che in altra forma fa ritorno… ], percependo fra sé e il paesaggio un nuovo ordine. Dice la Chiesa Isnardi “[…] Nella poesia di Tomas Tranströmer niente è fuori posto o in più, ogni parola ha un peso simbolico all’interno di testi che si avvicinano alla perfezione…”. E poi continuando nel suo saggio, la Chiesa Isnardi usa la parola-chiave, quella che in me ha fatto scattare la scintilla dell’accostamento di questo nuovo corso della esperienza poetica della Petrillo proprio all’opera di Tomas Tranströmer: ”[…] La poesia così diventa meditazione attiva in grado di destare impulsi, offrire una visione diversa, barlumi di verità. Una poesia dinamica e aperta, dove è centrale l’elemento sensoriale; una poesia in cui la lingua è spinta al limite estremo, alla ricerca della parola perfetta nel silenzio gonfio di messaggi a cui il chiacchiericcio del mondo ci ha disabituato; una poesia che non si dà mai una volta per tutte, ma continua a suscitare dubbi e incertezze, come una finestra costantemente aperta sull’ignoto […]”. Efficacemente proposto in forma di distici, esemplare appare il componimento della Petrillo proprio come testimonianza di poesia della meditazione attiva, secondo l’idea tranströmeriana di poesia che scocca dal silenzio:"All’ombra di un filo d’erba sei cresciuta/ come fiocco di neve caduto./ Il cuore è il tuo cielo e nel sempre ad esso ritorni./ Hai trascorso in parole il tempo /ed ora, umile, ad esso rivolgi il canto[...]. Marina Petrillo in materia redenta si mette in viaggio verso una sua «patria linguistica» di parole da abitare nel «cerchio del dire». Scrive Andrea Sangiacomo a proposito della Civiltà della solitudine:«All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza, abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella con-trada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo. Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole [...]». Marina Petrillo si mette in viaggio alla ricerca di una “sua” patria, di una sua “patria-linguistica”, l’unica patria dove il poeta, per dirla con Brodskij, non avverte lo strazio della condizione dell’esilio. Per la Petrillo l’unica patria è la poesia, l’unico spazio di vita è il linguaggio della poesia che per l’autrice di materia redenta diventa il suo «cerchio del dire», la porzione di spazio in cui le “cose” sono in grado di prendere la parola e vanno incontro all’uomo-poeta per raccontarsi, per farsi comprendere. «Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose-per-me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza.» La poesia della Petrillo va interpretata come “poetica delle parole abitate” perché «Il poeta è colui che abita le parole e che si inoltra nella contrada del dire, che esplora gli Holzwege e gli Irrwege [...]» per dirla con un pensiero di Giorgio Linguaglossa. La poesia della Petrillo è un interrogarsi continuo, è un porsi (e porre) domande in un flusso inesausto che mai però spaventa il lettore il quale proprio in quel flusso senza interruzioni di associazioni liberamente divaganti si ritrova, proprio in quei distici interroganti non di rado sente rispecchiarsi la sua realtà, la realtà che giace al fondo del suo essere e che lo stesso lettore sente di avere dentro di sé ma a cui non riesce a dare voce. Da Sulla ricchezza dei mondi abitati a tutta la sterminata opera in prosa, per definire la sua tecnica di scrittura Lars Gustafsson ha usato l’espressione «estetica della distrazione». Anche nella poesia pensante di Marina Petrillo, ad elevata affinità con quella di Gustafsson, parlerei di estetica della distrazione se non altro per quell’intrecciarsi continuo di riflessioni, meditazioni attive, speculazioni filosofiche, memoria che si coglie in ogni suo pensiero poetante, peraltro ad alta resa estetica per l’ekphrasis che si respira in ogni distico della sua raccolta poetica congedata come materia redenta. Scrive Marina Petrillo in un altro ben riuscito componimento in distici:”In sguardo complice tace l’azzurrità/ l’Essere nuovo, di evoluta specie…/ preludio simbolico impresso a pietra lavica./ Livido si staglia il ricordo[…] E qui parlerei di «poetica dell’archeologo» se non altro perché quando una poesia come in questo caso “riesce”, si verifica che una scheggia di verità viene condotta alla luce. Sostiene Lars Gustafsson:«La riuscita di una poesia è una verità portata alla luce, come fa un archeologo...». Nello scontro dialettico fra il Sovrumano, il Verbo abitato dall’Angelo e l’inconoscibile di questa poesia breve la Petrillo compie il gesto estetico dell’archeologo: passa la sua spazzola sulla sabbia strato dopo strato. La sabbia con mano delicata viene rimossa e all’improvviso si rivelano i contorni di un oggetto: un frammento di verità, che il poeta-archeologo porta alla luce. In una intensità di osmosi senza precedenti fra parola e immagine, almeno secondo il pensiero di Iosif Brodskij (« Nel rapporto immagine-parola le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia»), Marina Petrillo compie un serio lavoro sul Logos come strumento per leggere il mondo. Per un poeta porsi la questione del Logos (quale lessico, quale stile, quale retorica) è, penso, cruciale, altrimenti si rischia seriamente di scrivere baggianate. E allora, in quale modo occorre pensare il Logos? Rispondo prendendo a prestito il filosofo Michel Meyer:«La questione del logos è posta come domanda fondamentale del pensiero. Fondamentale, perché non poggia su nessuna risposta preliminare e, per questo, su nessuna domanda più prima ancora, e fondamentale, altresì, perché essa si vuole fonte della risposta prima. Fondamentale, dunque filosofica, cioè esente da presupposti e da asserzioni esterne che non discendano dall’interrogazione sul logos». Una parola implicata, questa della Petrillo, una «parola implicata» come nelle poesie tranströmeriane. La parola di Tranströmer è «parola implicata» nel senso che ogni componimento poetico diventa una trama fitta di implicazioni esistenziali e di esperienze sensibili. Una intelaiatura intorno a un unico fotogramma che vive con la vita e nella vita stessa del poeta, ma che ogni volta diviene un corpo “altro” in grado di porsi al di fuori del poeta, come succede per esempio nella chiusura di una sua poesia dove Tranströmer rivela e registra la nascita “materiale” di un componimento poetico :«[…]/ Non ci sono qui spazi vuoti./ Stupendo sentire come la mia poesia cresce/ mentre io mi ritiro./ Cresce, prende il mio posto./ Si fa largo a spinte./ Mi toglie di mezzo./ La poesia è pronta». Anche in materia redenta la poesia si avvale delle esperienze, delle meditazioni, della memoria del poeta. Ma la Petrillo le intreccia e le ricompone creando esperienze “altre” che diventano più massicce delle esperienze stesse vissute dal poeta. Ecco allora che la poesia-esperienza pretende il proprio spazio, si fa troppo pesante perché possa esser trattenuta in sé. E viene data al mondo.Scrive Giorgio Linguaglossa:«La poesia della Petrillo alza gli scudi quando la tendenza ad ammutolire diventa insormontabile e soverchiante». L’alzata di scudi Marina Petrillo la affida a un lavoro incessante sul Logos volto a restituire all’uomo la dignità perduta attraverso il recupero della dignità della parola poetica sempre all’interno del «cerchio del dire», l’unica patria del poeta in cui le cose parlanti ci vengono incontro, tra immagini e parole, senso e suono, metafore cinetiche e quadridensionalismo come artigiano della misericordia, restauratrice dell’umana dignità perduta.
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Gino Rago

Roma, Caffè Letterario Il Mangiaparole, 5.10.2019

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