Gino Rago (a cura di), UN AUTORITRATTO di Camillo Sbarbaro (1888- 1967)
Premessa
A proposito dell’asse trasversale Govoni-Palazzeschi-Sbarbaro, da Giorgio Linguaglossa adottato come utile chiave di lettura di buona parte del Novecento lirico italiano, propongo un Camillo Sbarbaro alle prese con un Autoritratto su misura, un autoritratto steso dallo stesso autore di Pianissimo, in una lettera inviata a Elio Filippo Accrocca, per un importante lavoro di mappatura degli scrittori italiani contemporanei viventi (1957). Tutto Sbarbaro è nella epigrafe dettata, anzi
bisbigliata, poco prima di spirare: «Amico è con chi puoi stare in silenzio».
Camillo Sbarbaro, AUTORITRATTO
«Nacqui a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888. Nel 1911 i compagni di liceo pubblicarono a loro spese il mio primo libretto di versi. Collaborai a periodici letterari come “Riviera Ligure”, “La Voce”, “Lacerba” e fugacemente alla terza pagina di giornali, come “Il Lavoro” di Genova. Finito il Liceo mi impiegai alla Siderurgica di Savona, quindi all’Ilva di Genova. Dopo la parentesi della guerra del ’14, cui presi parte prima come crocerossino poi come soldato di Fanteria, mi stabilii con la famiglia (mia zia e mia sorella) a Genova e vissi insegnando il greco e il latino e collezionando muschi e licheni (miei erbari si trovano in Università e Musei americani ed europei). Dal ’51 abito con la sorella a Spotorno. Il mio atto di nascita come poeta, il primo vagito, deve ancora trovarsi in qualche casa a Savona, dove finì in occasione d’un trasloco: una poesia inserita a titolo antologico in un’annata della «Illustrazione Popolare» dove di sua mano la trascrisse mio padre, il quale, mentre negava potessi esserne io l’autore, tradiva così la sua speranza che davvero lo fossi. Il nome che vi figura sotto è quello di D ’ Annunzio.
Con la lode, palesemente eccessiva, implicita in quella attribuzione s’iniziava la mia carriera letteraria. Povero babbo. L’opera prima la maturai nei primi due anni di liceo. Ogni componimento ambiva alla perfezione e ognuno era sempre l’ultimo cui mi accingevo. Lo ruminavo in lunghe passeggiate solitarie, che l’età ha accorciato ma di cui conservo il gusto, rammendando, come con una «bella immagine» si dice da noi, e cioè percorrendo su e giù il litorale ligure instancabilmente. Solo quando era nella mia mente compiuto, lo consegnavo alla carta. E per qualche giorno unicamente su quello puntavo.
[…]Per quei versi venni in fama tra i condiscepoli; e furono essi a stampare di loro tasca il libretto e ad imporgli il titolo: Résine. (Il mio era più modesto e, per quel che ancora mi pare, più apropriato, Bolle di sapone ). A quello sgorgo di linfa seguì un periodo di siccità; ma di una siccità di cui non soffrii; l’avventura era chiusa; il libretto diventato a me estraneo “ come all’albero la foglia caduta. Venuta la definitiva vacanza che, ad ogni parto, m’ero sempre invano promessa. Da alcuni anni durava la tregua quando una notte che coi sensi sazi giacevo a letto “lungo disteso come in una bara”, mi venne da sé alle labbra la constatazione: Taci, anima stanca di godere e di soffrire… Prendevo coscienza di me; nasceva il mio secondo libretto di versi: una specie di sconsolata confessione fatta a fior di labbro a me stesso, dove sull’affiorare di torbidi istinti e di nausee sessuali dominava il lutto, patito in anticipo per la morte, che vedevo prossima, di mio padre. Qualcosa che mandai alla «Voce» - il periodico fiorentino che si attendeva a quel tempo come un’amante – piacque a Soffici ed ebbi una calda lettura di Prezzolini che, poco dopo, nel 1914, stampava il libretto.
[…]Pianissimo è la mia voce, quella voce di quando ero vivo. Da allora, e cioè da quando imparai ad appagarmi di un colore del cielo, una voce che mi scotta ogni volta che la riodo».
Camillo Sbarbaro
TACI, ANIMA STANCA DI GODERE
Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all'uno e all'altro
vai rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto:
non di rimpianto per la miserabile
giovinezza, non d'ira o di speranza,
e neppure di tedio.
Giaci come
il corpo, ammutolita, tutta piena
d'una rassegnazione disperata.
Noi non ci stupiremmo,
non è vero, mia anima, se il cuore
si fermasse, sospeso se ci fosse
il fiato...
Invece camminiamo, camminiamo
io e te come sonnambuli.
E gli alberi son alberi, le case
sono case, le donne che passano son donne,
e tutto è quello
che è, soltanto quel che è.
La vicenda di gioia e di dolore
non ci tocca. Perduta ha la sua voce
la sirena del mondo, e il mondo è un grande
deserto.
Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso.
*
Commento di Gino Rago
Un’esperienza significativa nel clima del rinnovamento della nostra Poesia del Novecento è quella di Camillo Sbarbaro. In questo poeta è evidente il peso di una crisi spirituale capace di trascendere il senso di una personale avventura. Poche opere poetiche del primo Novecento appaiono maturate in un’aura di solitudine come quella di Sbarbaro . Eppure, nella sua voce si avverte un aspetto inquietante dell’uomo contemporaneo: il gelo di un’aridità che ha bruciato tutte le illusioni. Lo sgomento di fronte a un destino buio, l’angosciata sorpresa dinnanzi all’ innocenza ormai perduta, il terrore di un lento e totale disfacimento, la condizione particolare di anima nella storia di un uomo si affidano a Pianissimo ( Firenze, Libreria della Voce, 1914).
Un libro che non è tanto una raccolta di liriche quanto una ininterrotta confessione dello spirito di un uomo in osmosi con il canto del poeta, nella rivincita di un’anima ferita che vuole rifugiarsi nel suo stesso squallore. Che desidera restare sola nel suo sconforto..Che vuole rinunciare a qualunque retorica. La parola di Sbarbaro si alza limpida, immediata, nuda. Trascrive in un
linguaggio chiaro la malinconica mitologia di un ulisside moderno, in un abbandono trasognato nel quale si smarriscono il sentimento dell’Io e il senso stesso dell’essere:
“Non voglio, non desidero, neppure
penso.
Mi tocco per vedere se sono.
E l’essere e il non esser, come l’acqua
e il cielo si confondono.
Diventa il mio dolore quel d’un altro
e la vita non è lieta né triste.”
Neanche quando il poeta si rivolge alla sua anima:
( “Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai
rassegnata).
Nessuna voce tua odo se ascolto…”)
si allenta la sua forza che risiede proprio in quel dolente distacco in grado di sottrarre peso e calore alle emozioni. L’aridità si risolve stilisticamente in essenzialità, in purezza di lingua, in semplicità di voce.
Le “occasioni “ si riscattano in una levità di tono, senza mai calcare le ragioni esteriori dell’Io.
E’ la voce di un sonnambulo, quella di Sbarbaro di Pianissimo. E’, secondo Montale, «qualcosa come una voce che si alzi nella notte.» Il poeta passa tra gli uomini ma non li comprende.Non ha una patria sua. Non possiede una sua casa. E’sopraffatto dalla vita. Il dato fondamentale dell’esperienza poetica di Pianissimo è stato individuato nella estraneità, tema nel quale Sbarbaro appare come eroe della negazione.
E’ un lasciarsi vivere nel rifiuto della azione utile come atto di condizionamento, cartina di tornasole della società piccolo-borghese, perché l’alienazione è capace di colpire tanto il mondo oggettivo, quanto il mondo soggettivo e per Sbarbaro “…il mondo è un grande deserto.//
Nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso.”
In una Italia ancora giolittiana, Camillo Sbarbaro inventa il linguaggio dell’uomo trasformato in cosa in un «frammentismo poetico» in cui si riconosce e si accelera la crisi dell’”Io” e il carattere frantumato della realtà. Nella luttuosa inconsistenza dell’ Io e della coscienza non più luogo della integrità né più unità di misura del reale, il poeta fa della poesia di Pianissimo una sorta di grado zero del linguaggio poetico del Novecento.
*
Gino Rago
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