ROCCO SALERNO "Nonostante questo" - Ed. Macabor - 2019
Rocco Salerno, docente, saggista, poeta, vincitore del Premio Nazionale di poesia Libero de Libero 2015, ci offre, con il poemetto Nonostante questo (Ed. Macabor, Francavilla Marittima 2019), il racconto di un amore intenso, virulento, difficile e disperato, simile a quello del grande poeta Vladimir Majakovskij per Lila Brik: è - scrive acutamente Barbara Alberti nella deliziosa prefazione – “poesia come incarnazione. Majakovskij va e viene nei suoi versi, fantasma inappagato che rifiuta la sepoltura, ma è un Majakovskij-Salerno…”.
In questa identificazione – credibile perché, nelle tappe di questo itinerario, con le labbra del poeta russo non parlano 150 milioni di uomini come nell’opera omonima, bensì la voce, affatto personale, del protagonista di una vicenda d’amore tutta privata – il poeta italiano va oltre l’immedesimazione con Dario Bellezza attinta nella recente mirabile silloge L’emblema casto del passato. Nel poemetto, infatti, egli non significa (“Anch’io…) la propria vicinanza spirituale all’amico poeta, ma giunge a farsi tutt’uno con lui, di cui peraltro riprende non pochi lacerti lirici.
Il poemetto, strutturato in sei canti contesti di versi liberi, si articola in un intenso dialogo intorno all’amore: “nell’amore si incatenano – come precisa nella dotta e analitica postfazione Antonio Spagnuolo – le tre figure protagoniste di questo allettante intreccio sentimentale”: due uomini, infatti, e una donna “si abbandonano alle vertigini di passione, ammiccamenti, tradimenti, ripensamenti…”.
L’epifania di Majakovskij è già operante in esergo mediante la citazione di alcuni suoi versi tra i più belli: ”Ma al di là dell’amore per te, // per me / non c’è mare, / e a quest’amore neanche col pianto / darai una tregua. // Ma al di là dell’amore per te, / per me / non c’è sole, / e io non so neppure dove sei e con chi. / Nonostante questo, / il mio amore, pesante come un macigno, / resta appeso al tuo collo, / dovunque tu fugga”. Lo stesso titolo del poemetto è, dunque, la traduzione di uno stilema del poeta russo. E non di rado versi di liriche majakovskijane alimentano cospicuamente il dettato lirico di Rocco Salerno: La stanza / è un capitolo dell’inferno di Krucenych. / Accanto a questa finestra / per la prima volta,/ in estasi, carezzai le tue mani. // Ancora un giorno, / e mi scaccerai, / coprendomi di ingiurie /… // “Balzerò fuori, / lancerò per strada il mio corpo, / Selvaggio, / diverrò pazzo, / trafitto dalla disperazione. / Non si deve giungere a questo: / cara, / buona, / diciamoci adesso addio. / Nonostante questo, / il mio amore, / pesante come un macigno, / resta appeso al tuo collo, / dovunque tu fugga. // Su di me, / al di fuori del tuo sguardo, / non ha potere la lama d’ alcun coltello. / Nonostante questo.”
O ancora: “Ma uno / come me / dove potrà ficcarsi? / Dove mi si è apprestata una tana? / Dove trovare un’amata / uguale a me?”. Altrove – come nota la Alberti – i versi di Salerno e quelli di Majakovskij “si intrecciano in un abbraccio disperato”. Gran parte della suggestione del poemetto, a mio avviso, è data proprio da questa ambiguità. Una chiave, questa, che accompagna il percorso narrativo, anche se, in due luoghi, una precisa determinazione geografica riconduce specificamente la vicenda all’identità dell’autore: “Più volte il Tevere mi tenta…”; “Me ne vado, / Roma non ha più volto…”.
Si dipana, così, in una partitura iridescente, il racconto della fenomenologia di quella relazione: una storia di convulsa tensione passionale, febbrile ardore dei sensi e voluttà, disperante solitudine, insistita e delusa ricerca di una rinnovata intesa, rimpianto di giorni lieti reiteratamente evocati, parvenza fiabesca di quell’amore, amara contezza della fine dei sogni, imploranti appelli alla donna idolatrata quanto inattingibile. E lei pare incarnare la realtà ossimorica della passione d’amore, “dispietato giogo”, “dolcissimo, possente”, fonte di piacere e di crudeltà, speranza e disillusione, estasi e disperazione. È un incombere assillante, che non lascia spazio a riposi contemplativi o a indugi descrittivi.
La tenace renitenza di lei di fronte a quegli appelli – mentre perdura l’incanto del suo sorriso – e l’infittirsi di una mortale stanchezza di esistere, fanno balenare i segni di un’ossessiva tentazione tanatologica, non aliena da un’ansia metafisica, un anelito religioso. Si susseguono, su una tastiera sempre accattivante, le note di stati d’animo cangianti come di situazioni reiterate, che il poeta indaga con penetrante e impietosa acuità introspettiva, profondità e ricchezza di analisi psicologica. Una disamina favorita da una mirabile duttilità espressiva, aperta a un’ampia gamma di accenti e di toni,capace di asprezze realistiche e di morbidezze melodiche, come di effetti di straniamento.
La cifra tormentosa di questo amore si annunzia sin dal brano lirico iniziale, con il susseguirsi di metafore e di immagini nutrite di vigore visivo e plastico, che segnalano la riluttanza di lei (“Tu non mi capisci. // “Va via, non meriti il mio viso…”) , il suo viso sfuggente “come la luna”, le labbra che si negano al bacio consolatore: “i tuoi occhi non sono più finestre aperte, / balconi sui miei giorni, / stalattiti sui miei deliri”. Una straordinaria girandola di metafore e immagini che rispecchiano l’inquietudine insanabile del suo animo, che non può appagarsi della superstite amicizia di lei e rassegnarsi alla diversità dei cammini che, secondo lei, li divide: “Mi sei la statua non modellata / Mi sei l’alba che pencola sullo sguardo. / Mi sei sangue nonostante”.
Egli rimpiange il suo sorriso, senza il quale cade in deliquio. Il dialogo procede su un duplice versante: da una parte il reiterato struggersi di lui nel rivendicare la pienezza del proprio sentimento, dall’altra il perentorio ripudio e rimprovero di lei culminante nell’esiziale proposizione “E’ finita”. Allora il poeta la lascia, “immemore del passato, / dei sogni infranti”: “Ti lascio / Ti lascio, / fanciulla, non consumata come la pomice dal fiume. / Mi resta la tua grazia di Naiade, / il tuo sguardo affilato, / il mio incavato di pianto”. La tenerezza si mescola, così, all’ammirazione della sua grazia e al fuoco del desiderio, a cui fa riscontro il suo pianto, ispirando accenti lirici di grande suggestione: “I suoi occhi / non gridano amore; / ma in essi ogni giorno mi muovo / fiamme che mi divorano / e non mi carbonizzano / io che vorrei ad ogni istante / dentro di lei affogarmi / nelle sue carni incendiarmi”.
La fenomenologia dell’amore svaria, quindi, con felici esiti poetici dall’elegia della passione infranta all’angoscia delle “desolate giornate”, dalla flocculazione dei ricordi, con la memoria di “irrisolti dissidi e paradisi” e del sorriso di lei “tenera gazzella”, all’autocommiserazione amara: ”Sono un cane bastonato / sotto la pioggia / che cerca riparo”. E la disperazione si converte in invocazione a Dio, in dubbio se vivere o morire, in ansia di infinito travagliata da visioni incubose. Il poeta supplica Dio perché non lo lasci solo nel deserto; e l’invocazione prende vigore dall’insistenza dell’anafora che introduce i vari elementi di un’accorata climax: “Voglio un volto che finalmente rischiari questi occhi, / voglio braccia che cullino come mia madre l’infanzia, / voglio un verme che mi scovi le ossa, / voglio una luce che vinca la povertà del cuore, / voglio gridare che ho trovato la strada. / Voglio questo sonno si trasformi in sogno…”. Invoca, poi, la mamma: “…tuo figlio è stato folgorato. / Non ha più dove posare il capo. / Non ha più ove arrestare questa morte, / dove fermare questi sogni”. Non a caso il lemma “sogno” (o “sogni”) ritorna con frequenza nel testo, con varietà di valenze semantiche, dall’estatica all’onirica, a dire l’oscillazione del suo animo, l’instabilità e fragilità del rapporto, e il suo labile incanto. Di nuovo risuona il lamento: “Lei non vuole saperne. / Per questo è cancrena, / arsura alla mia sete”. Ma l’effusione dell’amarezza – pur nella contezza del tradimento – non va oltre questa sottolineatura dell’insanabile tormento che lei provoca: non l’orgogliosa e risentita reazione leopardiana alla ripulsa di Aspasia, solo l’insistenza sull’angoscia suscitata da lei, che rimane pur sempre oggetto di tenerezza e di ardente vagheggiamento.
Il senso geloso della sacralità di lei si manifesta, timoroso della profanazione del suo corpo, di fronte ai giovani “ghignanti” nel bar: “Non poggiate le mani / su quella carne / ancora fresca di lacrime, / su quelle labbra / ancora cariche / di dolcezze scottanti / … / Abbassate il capo. Chiudete le labbra. / Venere passa. / Lascia infiorescenza ad ogni angolo…”. Ancora prevale la lode della sua bellezza: “Io guardo i tuoi occhi / e sono belli. / Io guardo il tuo viso / ed è sincero. / Io guardo la tua vita / ed è leale…”. Ricorda “il rovente fuoco” dalla sua bocca per il corpo di lei, il corpo che “risveglia sogni / dentro gli occhi…”; ma il ricordo e il sogno non valgono più a consolarlo. Rivive l’immagine di lei, sovrana, con il brivido che gli “correva fino alle ciglia” dal suo ”solo sorriso”, in un crescendo di metafore (“Eri la tempesta / che urgeva per la quiete”) e di concitazione: ”Salivo, scendevo, inseguivo. / Mi morivi se ti vedevo sparire…”. Il disagio di lui si rispecchia nel solidale rammarico dell’altro uomo, peraltro suo amico: “È triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso / tempo e luogo / e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia…”. E la sublimazione dell’Amore culmina nell’appello appassionato: “…Tu che puoi tramutare / questo ghiaccio in vulcano, / dammi l’anima; / dalla a me la tua anima…”. Esso trova riscontro nella famosa invocazione di Majakovskij¸”Risuscitami. / non foss’altro perché / da poeta / t’ho atteso, / ripudiando le assurdità di ogni giorno!”.
Ritorna, così, l’epifania di Vladimir nell’invocazione-rievocazione che chiude il poema: “Ma questo ti basti: / nell’avidità di amare / anzitempo ci siamo bruciati? // …Devo andare // … // Ma tu ricordami come un sogno / che ti scoppia negli occhi. // Majakovskij pende ancora dalle labbra di Maria. // Nonostante…”.Versi che nel lettore memore della poesia di Majakovskij suscitano il ricordo di una sua lirica scritta poco prima della fine, limpida e assorta, pacata, pervasa da un senso di rassegnazione al destino e dal superamento catartico della vicenda personale nella contemplazione del flusso dei secoli e dell’infinità dell’universo: ”Sono già le due. / Forse ti sei coricata /… // Come suol dirsi / l’incidente è chiuso. / La barca dell’amore / s’è infranta contro la vita . // Tu ed io siamo pari. / A che scopo riandare / afflizioni / sventure / ed offese reciproche? // Guarda / che pace nel cosmo. / La notte / ha imposto al cielo / un tributo di stelle. // In ore come questa / ci si leva e si parla / ai secoli, / alla storia / e all’universo”.
Ma quell’epifania non si conclude qui. L’affinità con Vladimir (e l’influenza di lui) si avverte, infatti, anche nella cangiante polimetria del tessuto espressivo, che gode della ineguaglianza della misura metrica, e della frantumazione del verso, ove è, spesso, ridotto al minimo il numero delle sillabe, con prevalenza di quinari e anche di trisillabi, peraltro familiari a Rocco Salerno (anche se non latita il verso lungo, di pavesiana memoria, anch’esso presente nel poeta italiano); nell’isolamento delle parole, che richiama i principi dello zdwig pittorico peculiare al cubofuturismo: “Potrò // “E come?; “Ti lascio”. / “Un momento / Eterea. / Sempre”; “Vado”; “Fermi”; nell’uso frequente dell’anafora e dell’anadiplosi. Ciò anche se Salerno accoglie solo in un luogo (“Risuscitami…”) il procedimento che spesso, nel poeta russo, dissemina scalarmente i sostantivi nella pagina.
Si compie, dunque, l’opera, che Barbara Alberti sapientemente definisce “temeraria”, del poeta calabrese: rivive, a circa un secolo dalla tragica conclusione della sua esistenza terrena, Vladimir Majakovskij, in virtù della singolare “poesia reincarnata” di Rocco Salerno.
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FRANCO TRIFUOGGI
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