Rocco Salerno, Nonostante questo, Macabor, 2019, pp. 58 € 10
Perché, se la poesia esiste ancora, è così difficile parlarne? E che cosa è possibile dire in quella "lingua speciale" che secondo alcune teorizzazioni deve essere il linguaggio poetico? I confini di questo linguaggio si sono straordinariamente ristretti proprio per l'influenza di quelle avanguardie formalistiche che nella seconda metà del Novecento sono diventate pura accademia? O non è vero che una poesia che non attui un rapporto di dialogo fra generi letterari diversi: poesia e narrazione, poesia e teatro, poesia e saggistica, non potrà che giungere al traguardo della propria esantematica dissoluzione? L’ultimo libro di poesia di Rocco Salerno, Nonostante questo, (Macabor, 2019), affronta proprio questo problema: dovrà la poesia uscire dal rifugio del formalismo e accettare la sfida della prosa?
È significativo ciò che dice Berardinelli a proposito del suo libro Lezione all’aperto del 1978:
Lezione all’aperto è per me il libro di un decennio, il ’68-’78, con molte cose che questo decennio implicava. Le mie poesie le pensavo e scrivevo all’interno di un sistema culturale in cui la tradizione di quella che era la Nuova Sinistra aveva un peso più che rilevante, un peso fondamentale… Insomma io a vent’anni ho preso terribilmente sul serio le cose che a proposito della letteratura dicevano Fortini, Asor Rosa, Enzensberger con tutte le implicazioni e i precedenti: da Brecht a Lu Xun a Adorno. Insomma una tendenza è quella della concentrazione e riduzione all’osso, ma accanto a una tendenza del tutto opposta: quella della descrizione, dell’accumulo, dell’apertura enumerativa, perfino».
Oggi chi fa poesia se si volta indietro per individuare i propri predecessori è costretto a ritornare sui propri passi perché la poesia che è succeduta agli anni novanta del secolo scorso, almeno quella ufficiale, non ha proprio nulla da suggerirgli. Se si fa eccezione di Maria Rosaria Madonna con Stige del 1992, Giorgia Stecher con Altre foto per Album del 1996, Anna Ventura con Brillanti di bottiglia del 1978 e lo scrivente con Paradiso del 2000, la poesia ufficiale o maggioritaria che dir si voglia non può indicare ai poeti di questi ultimi anni nulla di veramente significativo. Il libro di Rocco Salerno, «nonostante questo», tenta di andare alla radice dei problemi, verso una narrativizzazione dei contenuti della dissoluzione dell’io, ma si arresta, come intimorito dinanzi a quale linguaggio adottare dopo la dissoluzione dei linguaggi poetici del secondo novecento.
Crisi della poesia e crisi del pubblico da allora andranno insieme, insieme alla crisi delle tematiche. L’esigenza di una poesia innovativa, che abbia a tema la problematica di un nuovo esistenzialismo, si scontrerà con la difficoltà di aderire a tale problematica da parte di una tradizione linguistica che di quella problematizzazione non sapeva che farsene: né il Gruppo 63 né Fortini né Pasolini si erano mai veramente interessati alla problematica esistenziale, prima di loro la poesia post-ermetica aveva avuto occhi solo per il soggetto e la sua storia, storia del paesaggio come in Betocchi e storia familiare come nell’ultimo Bertolucci; dopo di allora, la poesia di adozione lombarda, dopo gli inizi promettenti, si sarebbe arrestata in una sterile topologia. Lo scetticismo montaliano da Satura in poi finirà per incrementare il tasso di disconoscimento delle tematiche esistenziali: non c’era lo spazio linguistico e stilistico per fare una poesia innovativa, saldamente ancorata alla tematica esistenziale. L’istanza di realismo era destinato a restare, paradossalmente, priva di reale.
E così arriviamo ai giorni nostri. L’istanza realistica di Rocco Salerno è ancorata alle adiacenze dell’io, alle sue perdite e alle sue sconfitte storiche, è una poesia di «resistenza», di nobile e comprensibile ripiegamento, è una poesia dell’umanesimo: «La storia si è consumata alla porta», scrive Salerno. Infatti, è la «storia» che ha dato scacco matto alla poesia italiana oggidì, sembra confessare l’autore. Ecco una poesia significativa dello scacco di fronte alla «storia»:
Diranno: “Era uno dei perditempo,
uno di quelli che bighellonano senza meta”.
Salivo, scendevo, inseguivo.
Mi sedevo all’ingresso del bar;
guardavo macchine sfrecciare,
alberi svettare.
Fra il fumo, fra l’alcool al bar
m’apparivi sovrana;
ma il brivido mi correva fino alle ciglia
dal tuo solo sorriso;
eri la melagrana
che pendeva dalle mie mani,
eri il mare
che vellicava le mie labbra.
Mesi, giorni, istanti.
Dalle mie mani poche volte
sei stata il fuoco.
Eri la tempesta
che urgeva per la quiete.
Devo dire che un punto a favore della poesia di Rocco Salerno è il ripristino del parlato virgolettato tra i vari personaggi (di solito l’io e il suo alter ego), l’impiego delle frasi ottative, degli incisi e delle parentetiche, così l’andamento frastico risulta come mosso, segmentato, puntellato da cadute e riprese, da inciampi e ripartenze; con il che ne guadagna la imprevedibilità e l’andamento sussultorio del dettato poetico. Anche il lessico, rispetto alle precedenti pubblicazioni dell’autore, risulta ammodernato, scandito sulla base dell’endecasillabo e organizzato in unità frastiche di varia lunghezza. Un lavoro di rispettabile serietà questo di Rocco Salerno.
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Giorgio Linguaglossa
Perché, se la poesia esiste ancora, è così difficile parlarne?
RispondiEliminaForse perché, come afferma Berardinelli nel suo volume del 1978, si continua a pensare e a scrivere all’interno di un sistema culturale in cui la tradizione continua ad avere un peso più che rilevante, un peso fondamentale… che protegge e rassicura ma ugualmente delimita e nega.
E forse, se solo si avvertisse la non necessità di «descrivere» la poesia - individuandone i contesti emotivi, le forme del linguaggio, le immagini del narrato, ecc. - si dissolverebbe del tutto il nodo gordiano della questione.
Oggi chi fa poesia sente un imperativo ben più categorico che voltarsi a guardare indietro i propri predecessori. Oggi il poeta è costretto a prestare aderenza soprattutto alla propria verità – soggettiva, parziale, immatura spesso, risentita, addolorata, fragile e confusa oppure luminosissima, ma che chiede comunque di essere vista, accettata e riconosciuta. Le cui qualità potrebbero essere riassunte come “tutto ciò che ho da offrire a me stesso”, spalancando così uno scenario molto potente di opportunità per manifestare finalmente il coraggio della libertà di essere.
E non si arresta intimorito dinanzi al linguaggio da adottare. Che sia gracchiare di corvo o canto d’usignolo, il poeta canta nel riflesso d’infinito la sua storia e - senza alcun timore di uscire dal seminato - genera il mondo che più gli corrisponde, recupera il pensiero magico dell’infanzia, inventa le linee guida delle proprie future lunazioni, sprofonda dentro se stesso per assaporare - come mai prima - tutte le proprie idiosincrasie, le inquietudini, le zone di luce e d’ombra nella loro totalità. Perché l’incontro con l’oscurità umana finalmente muta in luce piena. E la comprensione più vasta che ci è richiesta come umanità, che non giudica né classifica tale nudità, produrrà una compassione tale da trasformare la sostanza dei cuori più stratificati.
Il complesso delle memorie e delle testimonianze trasmesse da una generazione all'altra permane certamente un insostituibile preziosissimo bagaglio sapienziale che ci ha guidati proteggendoci dal nulla, un caldo morbido maglione a cui continuiamo ad essere affezionati ma che siamo obbligati a togliere se avvertiamo adesso l’esigenza di un contatto più intimo e veritiero, se vogliamo sentire la nostra pelle contro un’altra pelle senza l’ingerenza di una continua intermediazione.
Con muta di crisalide prepariamoci a volare più leggeri, lasciando andare bagagli pesanti e obsoleti. E forme pensiero ormai disfunzionali semplicemente perché più non ci corrispondono.
Non si parla della poesia. Semplicemente, si è poesia.
E nella sua lapalissiana solare crudità, Rocco Salerno è poesia.
ELLA CIULLA