Raffaele Piazza – "In limine alla rosa"
La fedeltà a una linea.
Anche quando la linea stessa sbiadisce o si fa corda logora o minaccia di spezzarsi.
La fedeltà di un credo. L’essere fedeli alla vita.
Qualunque forma essa prenda. Sia essa assenza o presenza.
La vita indomata, che comunque resta ferina. Anche nella più cupa evanescenza della disperazione. Raffaele Piazza con “In limine alla rosa”. Fissa un punto. La sfida che non vi sia non ritorno non affrontabile.
Un guanto che viene gettato con forza di carezza e di grimaldello. Per una voce poetica che si declina per dare respiro a tutti gli antri dell’umano sentimento.
Dal farsi breve come proiettile. Al lirismo per rimandare al mittente le distanze siderali di un addio.
Una varietà complessa che restituisce la geografia del mondo e dell’anima. Una politica del sentire. Un voto quasi religioso. E un senso del sacro. Intrinseco all’amore.
E ancora l’auspicio di una rinascita. Di una stagione nuova di coesione.
Che ha sempre come architrave un “tu” ineludibile e definitivo. Il fiore del vivere e il suo seno.
Piazza stacca la poesia dalla poesia. La strappa della pagina e la rende chiave, piede di porco, ariete. Perché il momento è arrivato. Il momento in cui sia la poesia a rivelarci. Dopo che tante materie, nel dirci, hanno fallito. Allontanandoci nel largo mare della confusione.
Piazza accetta lo scontro- confronto con il Montale d i Clizia. In nome di un richiamo alla salvezza, una salvezza che dobbiamo imparare da zero. In alfabeto, sillabe e parole.
La poesia di Piazza è poesia che genera e si rigenera. Pagine dove si cerca alleanza con il lettore chiamato a essere compagno in una rivoluzione senza promesse che tende all’ultimo estremo. Alle sole cose che contano.
Quelle che ci rendono umani
Lettera di primavera
A voi scrivo questa lettera
(con diseguale grafia che pare
ondulata come l’acqua di una forma di laghetto
dai cerchi concentri di un sasso)
, amici poeti sempre in primavera,
simili al suo paesaggio di chiarità,
sfondo in cui entrare e non volete lasciare
nemmeno ad un’offerta di ricchezze,
non so se di lauri profumati.
Qui la mia strada è bianca come la vostra,
vergine agli anni e alle morti degli uomini
e dei salici, in una storia che non ha numero e nome.
Forse non ha nemmeno la storia
ma comunque per voi che non vedo
e per me appoggiato ad un azzurro di panchina contro
[il cielo resta nelle vene e nelle linfe il nome
(il nome almeno) di questa primavera.
A chi ha il compito di dire questa raccolta non resta altro che dirvi di intraprendere il viaggio, senza mai guardarvi indietro.
*
Enrico Marià
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