domenica 7 novembre 2021
POESIA = FRANCESCA LO BUE
La Lo Bue legge in questo monologo, espresso in termini poetici il mito di Andromeda, traducendolo in un racconto che è di fatto l’esercizio di una singolare modalità di pensare. Infatti, la narrazione della storia mitica di Andromeda diventa lo spunto per esprimere la realtà contraddittoria del fenomeno umano, allorché è posto nelle condizioni limite dell’esistenza. Così la protagonista dell’evento mitico si trova sospesa tra l’abissalità della morte causata da un fato ineludibile e il grido della vita che non riesce ad emergere dal destino alle soglie del suo compimento. La disperazione sembra trionfare, la speranza appartiene in tal caso all’impossibile, ma l’inatteso evento liberatorio della salvezza e di una nuova vita, finisce per germogliare da una situazione che appariva conclusa. Questa realtà enigmatica dell’evento viene chiarificata dalla poetessa attraverso un’ermeneutica che fa uso di immagini in alcuni momenti buie e in altre luminose, chiarificate e soprattutto evidenziate dai colori e dagli effetti di un fuoco nascosto che esorcizza il pericolo della morte e oggettiva il grido trionfante della vita, aperta ad un domani migliore ma sicuramente imprevedibile. Tutto ciò, come di solito accade per la nostra interprete, viene realizzato dai registri dinamici di un linguaggio che valorizza gli effetti arcani del racconto.
** Aurelio Rizzacasa
"Andromeda" (monologo)
Qui sono,
in una roccia che dirupa nel lago ceruleo,
dove scendono il fardello dell’affanno e le catene del tempo.
Virgulti di afflizione e di esilio
arrivano dalla sabbia a ricevere bisacce di pena.
Nel petto ansimante trattengo la bellezza dell’ebano,
i nibbi delle rocce e il pavone di fuoco.
Le creste di fiamma bruciano i miei occhi che aspettano cibo e vento.
Dalla tana amara,
fra i chiodi del solo nuvoloso,
ascolto il crepitio di barche lontane e le campane dei corvi.
Urlo nella notte, nel mattino senza luna,
nella terra delle sabbie, le mie pupille guardano nel nulla.
In un giorno come tanti verrà la morte senza piedi.
C’è il mostro dalle orecchie di bue,
la lupa dagli occhi di fiamma.
C’è pitone che sogna veleni fra i pepli della notte,
quando le ninfe marciano in pena verso gli specchi della selva
e i cani che sbavazzano.
Colpisce e cade la morte con l’emblema del figlio errante,
in un’epifania di alberi allucinati,
fra memorie che tramontano ed alchimie sanguigne.
Qual è la tua casa?
La mia fu una via buia e scivolosa,
un marchio senza terra né la madre,
una rugiada salmastra che ferisce sbiadita.
Che doni porta la tua mano?
Vivere in una roccia infiammata,
in una ruota d’aria cerulea,
fra liane d’acciaio e linfe diroccate.
Contemplo il mio viso sotto lo zenit di parole miracolose.
È un pensiero di carne nelle notti nude,
parole e aspettative che scivolano in un rivolo di ghiaccio.
C’è amore da qualche parte?
Il notturno vagare cede all’urlo
e all’affermazione di un mare lontano,
quando abbaglia solitudine e disfacimento
tra grovigli di veleni e chiodi di sole.
Potrei ritrovarmi in un accenno,
in un desio di fiamma celato
nello stupore di un nome bianco.
Che suono è la patria?
Chi mi condurrà,
con quale mano,
al sentiero della pietra fulva,
dove il pungolo del fato s’attorciglia tra salici gelidi e rocce appuntite?
Fu o non fu un sogno il paese della nebbia?
La stizza dell’uomo fu briciolo di foglie o graffio di rose?
Taci, taci.
Irrompe il sangue della colpa.
Perché non ascolti i supplicanti?
I supplicanti per la vita che sfugge fra i capricci della natura?
Sono come erba calpestata dalla brina d’autunno.
Viene da me su un carro cigolante nella luce dell’affanno.
È voce di sale e acqua morta,
di colli e distanze.
È lampo di candela nel focolare della sera,
una visione che incrina nel raggio di sole,
balocco che scivola nel vento di tutti i giorni.
Apparve un genio nelle punte del meriggio,
carezza fuggente di visione e di aneliti erranti.
L’angelo arciere mi guarda nella pazienza del silenzio,
ammicca alla mia anima dalle sue ali di neve antica,
mi chiama da mura diroccate
quando si destano gli gnomi della notte.
L’istante nasconde il mio petto ansimante,
nel calice carminio del cuore
appare un isola per la voce dei morti,
per la voce dei vivi,
per la voce del sogno nel guizzo dell’aria.
Che portano le tortore assonnate?
Il risveglio cos’è,
cos’è una terra di morte?
Purpurea aurora perpetuamente sparita.
Ero viva nel saluto dei navigli,
viva nell’incanto dell’aria,
viva nella pena delle mie dita anelanti e nel grido esultante.
Il mio nome è la mia giustizia in una terra di nessuno,
in un passato che non è,
in un oltre che non c’è.
Sei la lontananza di me,
tutti i suoni della mia voce,
il bagliore dei miei occhi,
la forza della mia carne ferita di passione e di bellezza.
Nella montagna azzurra appare il castello di mio padre,
mi chiamano editti di perdono e pazienza,
Sorge l’isola, la patria trascinata dalle nereidi dagli occhi cupi,
dalle reti dei pescatori di perle.
E poi vennero le barche con meduse, schiavi e scrigni
E non fu il miracolo delle alghe d’oro.
Nei riverberi delle sabbie della spuma
Sussulta la nostalgia,
trema la gelosia,
e la Moira accovacciata nelle pieghe della mia veste
rincorre i cammini delle peripezie.
Si schiudono le rose e la nuda gioventù.
*
Francesca Lo Bue
Questo monologo della poetessa Lo Bue ripropone un tema molto presente nella sua poetica, quello del mito che trasfigura condizioni esistenziali, come emerge anche dall'analisi del prof. Aurelio Rizzacasa. In particolare è evidente nella volontà di dare voce narrante alla fanciulla incatenata, assediata da numerosi mostri, evidentemente generati dall'angoscia. Troviamo inoltre numerosi altri temi cari alla poetessa: la patria, la lontananza, l'anelito alla casa da ritrovare, la Moira (titolo anche di un precedente volume dell'autrice) come personificazione del destino, quale disvelamento della verità di ognuno.
RispondiEliminaCommento scritto da Rosa Rempiccia
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