domenica 16 gennaio 2022

SEGNALAZIONE VOLUMI = BERNARDO ROSSI


Bernardo Rossi : "Estravaganti,minime e frammenti" - Ed. Robin 2021
«A volte provo poi improvvisamente / la sensazione Bernardo che tutto / sia stato detto». Nel secondo testo (p. 13) della raccolta di poesie di Bernardo Rossi, questi tre versi ribadiscono quello che è un pensiero comune, una certezza di chi vive e scrive oggi (e non uso nessun termine con il prefisso post per l’abuso che se ne fa). L’«a volte» dell’incipit permette a Bernardo o Dino ‒ che ho conosciuto personalmente negli anni di università alla Federico II di Napoli, discutendo nel chiostro della Facoltà di Lettere dei poeti crepuscolari ‒ come a tutti noi, di continuare a scrivere e a pubblicare nonostante il peso del “canone occidentale”, nonostante vengano stampate e circolino in rete milioni di testi, nonostante i lettori di poesia siano notevolmente inferiori a chi ogni giorno, su tutti i canali possibili, fa comparire dei versi presto sommersi da altri.
Fissare «a volte» la propria esperienza sulla pagina è comunque importante, innanzitutto, per compiere il proprio viaggio interiore, e può permettere ad un lettore, come me in questo caso, di ritrovare un amico che per anni si era perduto. Il “filo” non “si addipana” e i capi divengono molti. Ritrovo nella biblioteca il volume pubblicato su da Rossi che mi fu donato nel 1993: Il primo “libro” di Guido Gozzano: La via del rifugio (Firenze Atheneum), con prefazione di Tobia Toscano, il professore con il quale mi sono laureato anche io con una tesi su un petrarchista meridionale, sconosciuto ai più ma che fu alla corte polacca di Bona Sforza, poi pubblicata anni dopo, parzialmente, con prefazione dello stesso Toscano. Il libro di poesie di Rossi ha la prefazione di un poeta come Elio Pecora, che pure ho avuto la fortuna di conoscere di persona presentando Simmetrie (Mondadori) nella mia zona, a Nola, diversi anni fa. Fermandomi qui, per evitare che il filo dei ricordi divenga inesauribile, sottolineo che Pecora riconosce nel libro di Rossi il rivolo dell’«onestà che Umberto Saba chiedeva alla poesia». Si possono notare, per rimanere nei paraggi del grande maestro triestino, nel libro di Rossi anche certe inversioni dell’ordine della frase, il tono di alcuni versi, come nello stesso secondo testo della raccolta che ho citato, quando essendo «tutto già parola» passa la voglia di scrivere: «non voglia mi reclama allora», dice Dino. Come si possono notare influenze dei crepuscolari; basti questo attacco proprio ad apertura, nel primo testo del libro, per averne conferma: «Io sono un uomo che cammina a testa / bassa». Se i primi due testi indicano già al lettore le coordinate di fondo, utile guida si rivela anche la postfazione di Antonio Marocco, che vede in questa poesia soprattutto una narrazione di «eventi» che «ne restano il fulcro» senza troppe astrazioni, riconoscendo il tema fondante nella sofferenza, nel dolore. E sicuramente qui l’“onestà” è portata alle sue estreme conseguenze, la «voglia» di dirsi, di raccontarsi di Dino «reclama», per cui “a volte” diventa una necessità proprio il mettersi a nudo nella propria sofferenza psichica, di fronte alla persona amata e al lettore, presentare i nomi dei molteplici lutti familiari subiti fin dalla fanciullezza. Non «esigenza di rima», aggiunge, ma vita vera» (p. 82):
e l'ansia di perderti alla prima semplice febbre
e invece è una mia febbre psichica che ti allontana
ora
spaventata da me una febbre bipolare che viene e va
e nella quale mi perdo ti perdo come ogni possibile
istante di
Serenità.
(p. 81)
La poesia e l’arte in genere come cura della psiche sono da anni praticate in tutto il mondo da esperti e psicoterapeuti che tendono a far ritrovare in noi stessi quell’energia, quel soffio vitale che mali psichici possono minare. Un testo di Dino ne è la testimonianza e questo voler mostrare la sua esperienza, comunicarla con i mezzi a sua disposizione, a mio avviso, di fronte all’abisso di un male così celato, misterioso, nascosto, va al di là delle discussioni su che cosa è la poesia e cosa non lo è, sui giudizi critici, sulle analisi formali, le valutazioni estetiche. E questo gesto di scrivere già pieno di senso. E Pecora lo coglie nella prefazione quando dice che siamo di fronte con questo libro a «parole vive». Le stesse parole che colgo nel libro in un bel testo di p. 28:
Non un gesto o un silenzio
nemmeno la presenza
fisica resta in un attimo
nemmeno le bucce d’arance
profumate ma un’energia
che molti definiscono
in modo diverso
anima spirito
io invece verso
Ognuno, poeti grandi che la critica giustamente recinge e tramanda nei libri di scuola, poeti che scrivono per se stessi o per curare le proprie ferite, per «stringere una mano nell’oscurità», come ha affermato Palazzeschi, hanno i propri amuleti, salvacondotti, strumenti di salvezza e possono offrirci qualche parola che rimanga o venga criticata e tralasciata: perché non tutto deve e può diventare, ovviamente, storia. Ma ogni parola può riemergere per vie che non conosciamo nell’ascolto di qualcuno o nella sua rilettura. «Ho trovato posto in me / infondendomi radici», è questo il dittico che Elio Pecora cita concludendo la sua prefazione. Più che un refuso a me appare “tra le righe” una “correzione” significativa nel “trasferimento” dalla seconda alla prima persona del verbo iniziale (a p. 91 leggiamo infatti: «Hai trovato posto in me / infondendomi radici»), anche per il discorso che ne segue di Elio sull’«esercizio solitario» della poesia praticato da Rossi come «cammino» interiore. In tale direzione si potrebbero aggiungere altri versi dal libro come i seguenti: «Di fronte all’ultimo albero […] / un dolce stare seduto». Spesso leggo a mio beneficio i testi canonici del buddismo che invitano a trovare posto in noi stessi e sono sicuro che la strada di Dino, come di ognuno, è quella della resilienza risiedendo in noi stessi, dell’aver fiducia quotidianamente nella vita e nella pioggia, in quella «metrica della pioggia», per citare l’ultimo, bel romanzo di Giuseppe Lupo, Breve Storia del mio silenzio (Marsilio), che può guidarci all’uscita da traumi, malattie e sofferenze, cui nessuno sfugge per il fatto stesso di vivere. E la parola della poesia, recitata in noi stessi come un mantra oppure come «preghiera laica» (Alberto Bertoni), può diventare dialogo, sia essa detta a coloro che amiamo, alle persone care e agli amici, i primi interlocutori di Dino, o ai lettori, comunicata con più o meno intensità e consapevolezza, per quanto sia possibile formalmente ad ognuno. Ma essa è sempre lì per noi, come farmaco per donarci la «Serenità» perduta (p. 81); è come una «voce» di «bimbo» che ci chiama dalle profondità del nostro animo, che invita a rilassare il nostro corpo (p. 79), come il suono del nostro respiro o le gocce di pioggia o il ritmo del verso:
Sto sul ciglio del vuoto
basterebbe un solo passo
ma sento un suono remoto
è una voce, rilasso
le membra, sembra voce di bimbo
è il mio animo […].
Con tutta l’umiltà e l’ammirazione verso l’uso straordinario della parola che ne fanno poeti e critici riconosciuti dalla comunità di lettori come tali, che non possono che nutrirci nell’arco di tutta una vita come i classici, credo che porci in ascolto lungo il nostro cammino di chi ci offre «a testa bassa» il suo percorso di vita e di scrittura sia un’occasione da non tralasciare, da cogliere e da accogliere con calore, essa stessa parte del ciclo infinito della vita che la pioggia rinnova, come le due poesie contigue di p. 17 ci ricordano, con immediatezza e semplicità:
X
La prima pioggia è caduta
venuta in un vento di mare
e l’ho sentita addosso: familiare.
XI
Ma la pioggia è vita
ciclica e infinita.
*
CARLANGELO MAURO

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