domenica 15 maggio 2022
SEGNALAZIONE VOLUMI = MARIA EROVERETI
**MARIA EROVERETI: “FIORI DI LUNA”, ATB EDIZIONI, TORINO, 2022 PAGINE 95 – 16,00 €
PREFAZIONE DI LAVINIA ALBERTI
Fin dal titolo questa raccolta di Maria Erovereti, i cui versi sono talora affiancati da suggestive immagini fotografiche, si preannuncia accattivante, se non altro per l’accostamento dei due termini antitetici tra loro; il primo, infatti, ci riporta al mondo terreno e bucolico: i fiori che appaiono all’inizio della raccolta, sembrano galleggiare immersi in una luce quasi lunare, segno di un legame tra la terra e il cielo, dove è quest’ultimo a prevalere nell’universo poetico di chi scrive. Il secondo elemento che dà il nome alla raccolta è, appunto, quello più alto, dell’etereo. Fiori e Luna sono dunque due termini quasi contrapposti che danno vita a un mosaico di sensazioni, di vissuti, ma anche di attese e di speranze rivolte al futuro.
Il rapporto con la natura è fondamentale, una natura che è fonte d’ispirazione e conforto quando è proiettata verso l’alto (il cielo, la Luna come evasione, come dispensatrice di suggestioni). Essa è ciò che consente all’autrice di superare gli affanni della quotidianità, è un’entità che con la sua bellezza allevia stati d’essere e malinconie quotidiane, come quando, alludendo alla Luna, Maria la definisce “disco incantato” e “palloncino d’argento”.
L’intera silloge della poetessa è un iter che si snoda tra il passato e il presente, un caleidoscopio variegato in cui è riversato un universo multiforme.
C’è l’universo degli affetti, in cui ci si immerge già dalle prime poesie dove è delineata tra le altre la figura del padre: tra lui e la natura c’è un misterioso legame, come quando, lui morente, il mondo esterno sembra rivolgergli un estremo saluto: “Tutto parlava di lui. / Quel giorno il sole declinante / traboccava di mio padre”. C’è poi un momento più introspettivo, di autoanalisi, come quello in cui la poetessa sembra talvolta smarrire la propria identità, non sapendo se identificarsi “con mare o montagna”, mentre “dilaga nel cuore / il vuoto di infinito”. Vivide emozioni che si dissolvono nel tempo, fatte di malinconici ricordi ma che mantengono uno sguardo lucido e ottimista verso un futuro ancora da vivere. Nei suoi versi – di leopardiana suggestione e memoria – la natura è un riferimento costante, talvolta dispensatrice di consolazione, talvolta elemento di smarrimento.
Nella raccolta non manca, infatti, il riferimento all’attualità, e ciò la poetessa lo fa ben capire quando allude alla pandemia che ha stravolto le vite di tutti noi e portato via in alcuni casi anche illustri nomi della letteratura odierna. La solitudine risulta in alcuni versi la costante di un animo poetico che sconta così una sensibilità singolare, e ciò si evince dalle immagini fotografiche di una tapparella abbassata, di una finestra con le tende chiuse, barriere fisiche erette più di recente anche dalla malattia, forse rivincita di una natura ferita dal noncurante uso umano della stessa.
Ecco che la poetessa non può fare a meno di riportare alla luce le immagini mentali di “Lugubri cortei / di insalutate bare / senza nome / allo sguardo naufragato / nell’abisso dell’irrealtà”, ma anche percezioni che rimandano ad un senso di claustrofobia tale per cui “rinchiusi nelle case / separati da muri / uniti da identici gesti / ci avvolge l’attesa / in un solo sentire / che lenisce l’inerzia / e rappacifica il cuore”. Ma non sempre la natura si rivela matrigna, perché altre volte invece essa è entità in cui volersi fondere, cosicché “s’intrecciano le parole ai tramonti” e “lievitano sensazioni irruenti”.
La voglia di vivere però è tale che l’autrice trova conforto regalandoci le immagini gioiose di panni stesi come quando lei scrive: “con voluttà m’inebrio / al profumo terso / dei panni al sole. / Immemore m’immergo nell’esistenza / per fugare gli affanni / che lacerano il cuore. / Per non farmi rapire l’anima / e rubare la vita”.
Nella raccolta vi è comunque anche la volontà di “sottrarre al silenzio / frammenti di emozioni”, espressione che ci riporta a una sua precedente raccolta poetica, intitolata in modo omonimo. È proprio il silenzio che si ritrova nella poetica dell’autrice, un silenzio che non è però vuoto, ma pieno di significati, eloquente, che “deflagra / da finestre sgomente / dilatando l’assenza / di strade deserte”. Poi ci sono i muri delle stanze, che sembrano essere un “riparo da dilaganti / disarmonie / che annegano le menti”: catalizzatori che fungono da elemento introspettivo per l’anima della poetessa?
È una poesia che scava a fondo, in cui chi scrive vuole guardare le ombre e le luci del proprio essere, che cerca consolazione negli affetti, nella natura, nei piccoli gesti del quotidiano. Non mancano però come nella precedente silloge – e in quella intitolata “Un piccolo mondo” – un alone di malinconia in cui “Ombre desolate / inseguono desideri di memoria / illusioni di eternità / per sfuggire sgomente / al silenzio mortale” e al contempo un sentimento d’angoscia derivato dal fatto di non sapere dare un nome al futuro. È un tempo che incalza, quello descritto in Fiori di Luna, in cui vi sono “ormeggi che imbrigliano il cuore / e annegano la mente”, un tempo che trattiene anche una “mente ingabbiata” da un passato che si ripresenta sotto forma di immagini nella vita della poetessa. Tuttavia l’autrice sembra voler vivere con fiducia certi momenti, immergendosi nella speranza di allontanare gli affanni che lacerano il cuore. Quel mondo terrestre in qualche modo “rinnegato” in quanto portatore di affanni, trova comunque il suo riscatto nell’urgenza di ancorarsi alla terra, e ciò si deduce in modo suggestivo dallo scatto di un albero secolare e nodoso che tiene tutti quanti noi essere umani legati come da radici invisibili: “dagli squarci profondi / un monito: / gli esseri sono una sola anima”.
Nonostante lo smarrimento nei confronti dell’imprevedibilità che la vita ci pone dinanzi, la silloge lascia trasparire dunque una profonda fiducia e insaziabile voglia di vivere. Qui Maria ancora una volta, dopo le precedenti raccolte, vuole con forza rammentarci che il dolore per la perdita o la sofferenza di persone a noi care o l’amarezza per le occasioni perdute lasciano sempre una traccia, un solco, ma che niente può spegnere in noi il desiderio di vita e di resilienza.
Lavinia Alberti
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