Antonio Spagnuolo : “Fratture da comporre” – Ed. Kairòs – 2009 – pagg. 96 - € 10,00
Caro Antonio,
mi accingo a leggere con grande curiosità il tuo Fratture da comporre da poco uscito nelle eleganti edizioni “Kaírós” di Napoli. E, subito, riferendomi al titolo – certo, lo si intuisce, non generico e casuale, come troppe volte riportano i libri di poesia, o ‘cosiddetta’ – mi pongo una domanda, direi non da poco: le fratture nostre e del nostro tempo, e quelle della letteratura in particolare, hanno propriamente bisogno di essere composte? O la loro scompostezza è il sale della vita? Della sua follia e di quella della poesia?
E’ con questo interrogativo che affronto, per essere confermato o smentito, i tuoi testi a prima vista assai intriganti, anche in relazione alle tue passate esperienze creative, e critiche.
Le figure del feticismo, mi paiono, qui più che altrove, dominanti: … pampini capricciosi nel tuo ventre / intrecciano frammenti… incomprensibile / come la schiena nuda alle pareti / il barrito della succlavia al collo… fammi accostare…/… / al tuo calore, al ventre, al tuo cespuglio / che nasconde il torpore, il sogno, il gusto / di un incanto… i tuoi piedi hanno reso friabili / gli scogli della mente… gli strappi delle tue cosce insolenti… è il sangue torturato, / confuso nel delirio che intreccia desideri… schiocca il tuo corpo ancora una tensione / sul dorso…
Ma c’è il compianto della vecchiezza – fra l’assente memoria nostalgica e l’eterna presenza della parola poetica che si esercita insistentemente nell’invenzione utopica di scritture corporali, di segni confusi e usurati, di tracce irriconoscibili – mentre le inquiete mie dita consumano i capelli / per l’ennesima volta, / biascicando smanie indigeste, / per il ventre ormai sconnesso…
«Quella “congiunzione essenziale” di assenza e presenza fa sorgere la similitudine di un corpo preso tra due tenaglie che lo schiacciano… Definire tale esperienza è definire l’esperienza insoddisfatta fondamentalmente, o per principio…» [G.B.Contri, “I tre imperativi…”, in “Figure del feticismo”, Einaudi 2002].
Essenziale per questa tua esperienza poetica – e qui sta la sua originalità – è la constatazione scritturale (eternale discorso) di una condizione feticistica che coinvolge la sessuale utopia umana al di là delle vicende biologiche di ciascun individuo. Il corpo e le sue attrazioni non hanno età, ed è in questa drammatica circostanza che l’individuo medesimo viene schiacciato. C’è il piacere – la tua poesia sovente lo invoca – ma, e forse già ne eravamo consci, subito il piacere si fa solamente distruttiva nostalgia. E quel subito è un tempo senza misura, perciò tempo senza tempo: un subito che condiziona il non-divenire di una irrefrenabile e tuttavia statica pubertà. È questa pubertà che insidia crudelmente e senza scampo la stessa vecchiezza. E’ una favola ingenuamente moralistica, se non dall’intento oppressivo, quella che vuole affermare per la vecchiezza ‘la pace dei sensi’. I feticci e le loro simbologie sono nel mito, e non nella storia, individuale o collettiva che sia.
È ovvio che a questo punto dobbiamo negare la storia, quella cellulare dell’individuo (che va comunque dalla nascita alla consunzione) e quella dell’umanità che con le sue contraddizioni (affermazioni e smentite, illusioni e perdite, tutte protese allo zero) si definisce nel nulla ben prima di una qualsiasi palingenetica fine e resurrezione. E persino ovvio affermare che la storia anagrafica dell’uomo (e dell’umanità) non è che un Nulla (qui ci vuole la maiuscola!) nella infinita nullità, per altro fluente senza scopo, biologica e cosmologica.
Una lettura di questa tua raccolta (meglio poemetto, considerata l’unità e la coerenza dell’assunto e delle emozioni) - ma altre letture possono darsi per chi voglia alleggerire il contesto – difficilmente può risolvere nel senso comune la catastrofe dell’essere temporale. Quando la illusoria volontà del piacere, affermandosi ossessivamente senza storia, senza fine, è presente sempre malgrado l’impotenza: una impotenza in cui l’essere medesimo si autodistrugge fin dal primo manifestarsi dei suoi desideri.
Tuttavia, se insistiamo nello sforzo eckartiano (il Dio come Nulla, l’Essere come Nulla) di superare la disperazione della storia e delle sue illusioni, per andare oltre il confine della sua impotenza, allora possiamo entrare nel territorio di quei segni che, appunto, non hanno storia: quel territorio è quello inconsistente (di fronte al banale utilitarismo storico) della poesia. Che non ha alcunché da dimostrare, alcunché da comunicare: per affermare invece la sua irreversibile presenza nel superamento della impossibile nostalgia. Di che?
Poesia significa - e in questo tuo più recente canto (un epicedio per la storia?) trova conferma - abbandonarsi alla forma fluens, biologica, cosmologica. Segnica… inutilmente (al mondo) segnica.
Cosicché il discorso silente (per la sua eternale nullità) nel flusso prosastico impone la presa di possesso della parola semplicemente (?)come materia.
Per questa via il titolo, Fratture da comporre, mi fornisce la risposta, leggendo il testo di commiato:
Come faremo a supporre ancora / un verso, un segno, una parola, / dopo il tremore e l’inganno, / … //… chiude un tempo ben fisso nella sera / … / breve amarezza di un retaggio / … Fratture da comporre… / … / da conservare negli spazi di un’unghia…
Nessuna artificiosa composizione, quindi, nessuna guarigione dalla follia feticistica, bensì l’accettazione sublimabile della parola che tutto coinvolge nel cháos, inteso nel rispetto etimologico, come insieme. Comunione senza finalità, se non quella della materia che si fa. Nel presente. Necessariamente.
Gio Ferri
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