venerdì 3 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIULIANA LUCCHINI

GIULIANA LUCCHINI: "NON MORIRE MAI" LC Poesia, 2012
Il titolo, "Non morire mai", è un’esortazione al sé, ma poi anche (p. 7) ai visi visti e agli sguardi incontrati, il che potrebbe essere lo stesso, a dire che il viso, siddetto in quanto la persona vi si dà a vedere immettendosi nell’essere, e lo sguardo, che non solo perciò è il portatore dello stesso essere , sono l’uno e l’altro e l’uno nell’altro i luoghi così della morte come della non morte. Si veda come qui già si compia un’operazione di poesia, che però non è ancora quella rivitalizzante, o quella che ci eterna, com’è intimata nel titolo; trattasi di un processo che per sua natura deve compiersi nelle cellule, e per ora queste restano fuori di riga, non sono ancora visitate e trapunte a che si orientino a vita e a rifiuto di morte.
Il processo simile sembra che possa attivarsi nell’esergo luziano di pag. 9, pagina che in base al titolo dovrebbe essere una ianua invocationis, ma per ciò che segue è piuttosto una porta Inferi, perché oltre essa si trovano passi verso buio ed ombra, a partire dalla sovrapposizione di tre distinte figure, ciascuna con le sue caratteristiche entitarie: la sera nebulosa e perciò avviata a buio, che è il suo modo d’essere, la Vergine con la sua santità statuaria, e la donna, innominata na che s’indovina da tratti di eccentricità vestiaria (pag. 11), e non solo. È la sera che, avvolta in veli trasparenti, in piedi fra ceri offre aria di grazia e sulle pie mani porge ai supplicanti il frutto della fede ardente (“bacche di fiamma”): è una santificazione del sé questa della sera, che si muta in Vergine Maria, schiaccia sotto i piedi il male rappresentato dal serpente e, intorno, come supplici, s’indovinano donne, che ora la Vergine impersona come detentrici di purezza e di amore, che però dilania a colpi d’ascia, come a cancellare quell’immagine nella quale il mondo ha sempre immobilizzato la donna e che ha sempre violato: è dunque una storia di donna che procede da luce ad ombra a buio, da che pareva da buio a luce. Ché tutta la vita, in specie della donna, sembra essere una fuga da indifferenza e anonimato: «siamo rondini in fuga», dice la Lucchini in una lassa in cui si performa un levarsi in volo, anche lì a partire dall’ombra, verso un cielo che lei stessa, la volante, viene istoriando di luce in un intento di personale sublimazione, e invece poi finisce col trovarsi chiusa in una corona di fuoco, anziché insignita di una corona di stelle, come la Beata.
Tanto vale accoglierla, la sera, come ospite gradita. È a partire infatti dalla sera che si intravede l’eternità, «quando batte l’angelus il ponente». Che poi è tutta una storia levantesi verso l’amore, che però finisce sempre ad essere niente altro che amore di carne, «dove si esalta infine il corpo/ del non sapere». Se si arriva in alto è per piangere, che in alto è «il nido delle lacrime». Le palpebre sono «fatte d’acqua» (lacrimale), finché si chiudono per sempre.
La sommità stellare te la puoi dipingere in camera, aiutando la fantasia coi miti antichi, così luminosi. Deve essere in rapporto a questo che un lui, con un mantello di stelle, si gettò nel fiume e le stelle si spensero in tutta la città, da doverla poi ridisegnare d’accapo, come sulla pietra di un’arca dopo il diluvio. Su quella pietra, come su quella di una tomba, la donna prega la sera di scrivere il suo nome, vale a dire di imprimerla nel nous, come costituita di quelle stesse componenti che hanno sempre segnato il cammino della sua esistenza: letizia, spavento, dolore.
Così la preghiera è esaudita e si chiude la Porta Inferi. Si chiude dietro di noi, che siamo dentro, in interiore homine, e perciò da qui in poi si inalberano Interni. Il fuori è cancellato, non ne resta che poco di dentro, un cartello avverte avverte che personaggi e fatti accaduti in quel fuori, sono solo assunti a tecnemi onde attivare la poesia. E il primo di questi Interni, benché nella sua delicatezza sia dedicato ad una ‘Carolina’, in paronomasia fa intravedere un Caronte «nella sua barca bianca attaccata al molo», all’inizio e alla fine, come una minaccia, né vale che il colore bianco della barca, sulla scorta del dantesco «un vecchio bianco per antico pelo», richiami con tanta evidenza la testa canuta di «Caron dimonio con occhi di bragia», che immette «nelle tenebre eterne in caldo e in gelo. Con il che si spalanca uno spettacolo di burrasca, tutto vi precipita, soprattutto una donna, con la sua bambina, tappandosi le orecchie per non udire l’urlo di lui, ché vi precipita anche un lui. Di tagliente ironia risuona l’incipit del Decalogo, «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me». A questo punto, la citazione da un rondeau di Guillaume de Machaut (1300-77), «Ma fin est mon commencement, et mon commencement ma fin», tirandovi dentro l’allusione alla ripresa che ne fece l’Eliot («In my beginning is my end» Four Quartets, East Coker, I, 1, 14), porta avanti d’un buon grado l’arrembaggio sarcastico. Mentre infatti il de Machaut annota, con reverenza di fedele, che già nel momento della sua creazione il Creatore aveva inscritto nella creatura il suo destino di morte, l’Eliot precisa che ciò discende, non da un disegno creativo, ma per pura conseguenza logica dal fatto che

Time present and time past
Are both perhaps present in time future
And time future contained in time past.
(Ivi, Burnt Norton, I, 1-3).

Infatti, se il presente ed il passato, dove si trova il suo inizio, sono compresi nel futuro, dove si trova la sua fine, la sola conclusione possibile è che principio e fine coincidano. Nella logica dell’esistere, non si dà inizio che non includa una fine, anche perché, e per altro verso, inizia solo ciò che è destinato a finire e finisce solo ciò che ha avuto un inizio.
E poi la poesia fa una sua mossa, che tu non ti aspetti, come di danza che esca di regola così per capriccio o golio di stranezza:
Così da lontano veloce
ti sei fermata qui, musica,
con la luce
che ti stende prima una lontananza, e poi la cancella con la parola “veloce”, perché si stava parlando di fine, e c’è qualcosa che finisce, si ferma, che cosa?, la musica si ferma, la musica della vita, ed ecco qui, si viene a sapere che la vita è una musica in viaggio, e qui si ferma, e quando si va a capo ci si accorge che quella musica era con la luce, ma l’accapo è uno stacco netto come un taglio, tanto che taglia via anche il rapporto di comitanza, sostituendolo con quello di identità, e la poesia crea così una entità nuova, la musica-luce, la vita come musica-luce, una musica che si presenta sotto la specie di luce con tutti i suoi “colori sfaccettati”, quasi un “caleidoscopio celeste”, o una luce che ha esiti musicali... che esiti?... mah!...vallo a chiedere agli amanti, che muoiono e rivivono l’uno per l’altro e l’uno nell’altro, o alla puerpera che si riversa tutta nello sguardo al suo bambino, fin lì avvertito solo come un pulsare di amore nel suo ventre, e adesso eccolo lì davanti, nei suoi occhi... o vallo a chiedere all’artista appena libratosi nella sua creazione... Di queste alchimie di li a poco altre ne sgranella giù a cascata la poesia, per es. applicando a fare oro tecnemi fonologici con parole in cui tutta la portanza semantica finisce consumata: un raro caso in cui si assolutizza la funzione poetica quale operatività, e l’oro che ne risulta poi... che oro... quale... è la bellezza l’oro, la bellezza dell’amato, la goduria celeste che l’amante sa trarre dalla vita, quale acqua salvifica, dove s’identifica il divino della nostra terrestrità.
Qui si adombra l’idea che l’intimazione del titolo fosse diretta all’amante, ché si susseguono composizioni ove la poesia celebra il punto sommo del rito di Eros, il divino Eros ove il se-stesso e il tutto viene a significarsi. Infatti si continua l’assolutizzazione del poièin, con esiti altissimi, in cui la poeta spende tutta se medesima e soltanto se medesima, vale a dire l’universo che è in lei, con il quale si depone tutta nell’amante. E di lì ne contempla l’andare dalla “motivazione instabile”, “il tappeto volante dei suoi pensieri”, “la sua animula in moto”.
Che l’amore sia totalizzante forza creatrice si performa in modo specifico a pag. 28, nella stupenda preghiera per i figli, che sembra rivolta all’amante e al Creatore insieme, onde per grazia di poesia le due figure finiscono per coincidere (Fecondazione assistita). Ne risulta una figura sola. Sembra che si parli d’essa in Terra. E vedete con che miracolo di poesia essa venga ad essere, soprattutto nel distico finale:
Nel petto colta come alabarda
l’apparizione.
Nel petto. Nello spazio del cuore. Colta. Come un frutto maturo. La vita. Ma col dolore che costano i parti di vita. Da somigliare a quelli della morte. Perché la vita è dalla morte e la morte dalla vita, a far meravigliosa l’avventura dell’esistere. Così che brilli in qualche mente. D’un qualche Uno. Così stabilmente da riempire l’eternità.
In siffatto scenario, si rappresenta poi, in Quête, l’uscita di scena come alla ricerca di qualcosa, una quête appunto, dentro il sé che è un mare, e vedete con quanta maestria creativa, onde la scomparsa è rappresentata da una barca di pescatore “che non c’è più”. Era lì a pescare e adesso non c’è più. Scomparsa. E il mare resta vuoto d’acqua e di pesci, come una scena di teatro ove cali il sipario.
Ma che fine ha fatto la forza vitalizzante, o rivitalizzante, di questa poesia, quella forza che ci eterna? Finora è sembrato che fosse, più che altro, una discesa en abîme, e tuttavia se si va a vedere, in quel che pareva una descensio, forse s’intravede almeno uno sguardo in su, dietro il quale altri occhi sono spinti a guardare in su. Come sotto quelle stelle di Astro/ labio dipinte nella stanza, quell’Alzati in volo, mio cigno, e la stanza scompare con la terra e tutto, e già il cielo tocca i suoi capelli, e poi s’apre a Via Lattea, e se, lui gettandosi nel fiume, tutte le stelle si spengono sulla città, è perché lui le ha raggiunte, vi si è assimilato, tutto il suo umano consumando via via nell’ascesa. Ecco dunque che cosa la sera diviene - «Pàrlaci allora/ sera» - un attingimento d’infinito, un infinito che parla, ed è il solo in grado di raccontare le storie, tutte le storie terrestri, perché serba un’impronta di terrestre, come una stigmate che ne lo solleva e lo fa divino dotandolo di veggenza.
Questa forza agisce anche in forma d’una ninna-nanna esistenziale che scioglie i contrasti e le ansie arrivistiche e adagia nell’essere con la tranquilla sicurezza che «lì si ritrovano insieme riconciliati/ l’andare e il restare// in reciproco abbandono». E intanto tu «abbassi a terra il peso da portare» e, incrociando gesti e solitudini, tutto si conclude in quella che è la più riposante culla esistenziale, l’amore, che c’immette gli uni negli altri, e che qui s’interpreta, con un verso lungo simile all’apertura di due braccia e affrancato da cure poetologiche, insomma nella stessa lieta quietudine che si vive nell’ «intorno della tavola dove eravamo tutti quanti insieme».
Poi ci sono formule dal potere magico da usare alla bisogna. Per es., a far risorgere i volti dimenticati («volti di tutte le tombe del petto»). Al suo risuono si aprono in noi le tombe in cui abbiamo sepolto tutti volti che abbiamo incontrato nella vita, e che ora risorgono e si riaprono al sorriso. Molte ne occorrerebbero di queste formule, ma la civiltà non ha ancora toccato questo culmine di saggezza e, come in un’eterna prigione, rinchiude l’immortalità in una tonda cornice sui marmi delle tombe, dove si estingue anche il volto dell’Altissimo, padrone dell’eternità, e a monito di tale sempiterna esclusione, c’è sempre un morto che di sera ti scaldano in TV.
Siano qui appena lampeggiate altre formule consimili: «nascerà da te/ il futuro» (p. 50), ove la poesia colloca in ogni io la sorgente del futuro, e s’intende con quale segno di potenza e, insieme, di terribile carico di responsabilità; «la dama... che scrive poesie/ sulle bare» (p. 51), con l’idea – per altro posta, come sembra, a base di questo libro – che la poesia possa vincere la morte; «lui la lasciò./ Per amarla.» (p. 54), perché – la poesia sussurra – solo restando lei «per sempre in quella luce», immune dalla violenza del tempo mondano, egli poteva continuare ad amarla.
E vi sono anche scongiuri palindromi, per così dire, come l’Assente che «di sera/ serra tutte le porte e si compiace/ di esserci, tra libri antichi sugli scaffali,/ le candele accese»... vedete... è un vero e proprio rito con buio e candele e libri antichi, palindromo perché da un Assente che si compiace d’esserci, viene evocato il suo reciproco, un Essente. Poi si salta alla pag. 86 e, nel comparto Congedi, si trova un palindromo che è una poesia intera, che va nel nulla e dà luogo a un tutto, e dal silenzio trae qualcosa come «la tua voce».
Finiamo questa rassegna di centri d’energia risorgiva, segnalando appena Io sono, titolo che assomiglia ad altri di chi scrive, ancora inediti, e che, manco a dirlo, sono raccolti sotto il titolo complessivo di Riti ontologici.
E con ciò basti. Si chiuda con l’invito a leggere. Un libro la cui macro-operazione di poesia traluce bene da un esergo di Goethe, che invita a godere della vita “prima che il Lethe fatale bagni/ il tuo piede fugace”.
DOMENICO ALVINO

2 commenti:

  1. Posso solo ringraziare Antonio Spagnuolo e Giuliana Lucchini per l'ospitalità offertami, e invitare gli amici e i miei 24 lettori ad apporre a loro luogo i "Mi piace" e i commenti, qualsivogliano. Insomma le solite cose. Ciao a tutti.
    Domenico Alvino

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  2. Se dio vuole finalmente un intervento critico che elude il critichese buono per i gonzi .
    Con stima
    leopoldo attolico -

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