Ivan Pozzoni: "Qui gli Austriaci sono più severi dei Borboni", Ed. Limina Mentis, 2015 -€ 10,00 -
Che funzione ha la rima nella scrittura poetica di Pozzoni così ferocemente febbrile, se non quella di conservare attraverso una volontà, sia pure ironica, di musicalità spesso così irta e selvatica, l’elemento utopico, se non addirittura il sentimento dell’utopia? E quale effetto egli si immagina di suscitare nel lettore che, dopo avere sentito un tumultuoso ed irato susseguirsi di parole, si trova di fronte ad un elemento così ‘tradizionale’ per quanto lacerato al suo stesso interno?
Voglio azzardare un parallelo e sostenere che in ogni testo Ivan ripeta in modo molto personale e del tutto inaudito, il cammino dantesco dagli inferi del mondo attuale, con i suoi vizi e mali e indicibili storture e crudeltà, alla segreta visione di un suo rinnovamento catartico improbabile ma non impossibile, veicolato verbalmente da una eco di suoni che ritentano una qualche armonia. Non gli mancherebbe nemmeno la donna- angelo (Ambra nunziante d’incondizionato amore) a fargli da guida in questo cammino quotidiano, perché una cosa è certa: è qui, sulla faccia della terra, che la ricchezza viene banchettata per la sazietà infinita dei potenti e non ci può essere riscatto per tutti gli esclusi dal convito, se non quello di rovesciare hic et nunc quella mensa e scacciarne i pochi invitati, senza ricorrere al convito mistico di speranze ultraterrene.
Con queste poesie Ivan Pozzoni si aggiunge alla lista dei tanti poeti cosiddetti maledetti, che hanno sempre suscitato scandalo e paura con i loro versi sovversivi. Di fatto, proprio essi sono gli uomini e, di conseguenza, i poeti più puri, quelli che sono sciolti da ogni sistema ideologico, da ogni ordine politico-sociale precostituito, da ogni interesse di mercato e brama personale di successo, e mettono la parola al servizio del bene pubblico, offrendo ai lettori l’arma delle idee.
Se mi si chiedesse di accostare a qualcuno di questi poeti Ivan Pozzoni, senza dubbio farei il nome di Lautréamont, le cui poesie furono così a lungo gettate nell’oblio per la loro virulenza espressiva.
Certo è che, in passato, ogni volta che la parola non si uniformava al pensiero dominante della classe al potere, essa era perseguitata e ostracizzata. Forse la cosa più triste della società contemporanea, a differenza di quelle che ci hanno precedute in cui il poeta “bello di fama e di sventura” veniva inviato in esilio e così offerto con le stigmate del ‘santo’ e del ‘sacro’ al pubblico dei lettori, è che la percezione etica delle cose si è talmente abbassata che un libro come questo può essere ignorato non per precauzione e difesa, ma per inerzia e vuoto morale, per disinteresse nei confronti dell’arte e dell’artista in genere, tanto più che, scegliendo quest’ultimo di tenersi lontano da qualsiasi gruppo o consorteria editoriale, firma già da sé la propria esclusione.
E, se è vero che nel nostro mondo super connesso esistono altre vie per diffondere il proprio pensiero, è anche vero che nel mare della rete tutto conviva in un’insidiosa poltiglia e una sorta di grande fratello accolga nel suo ventre ogni parola, digerendola, se consona, e vomitandola se è amara.
Eppure un libro palingenetico, come quello che ha scritto Ivan Pozzoni, ha, a mio parere, una possibilità di “eternità” maggiore, in quanto rappresenta un codice morale, che, pur scaturendo dall’analisi delle condizioni di una data società in un dato tempo, è destinato a scuotere la coscienza di ogni uomo che si chiami uomo, per sempre. Lo stesso effetto fa, per esempio, la lettura di un romanzo come Voyage au bout de la nuit di Louis-Ferdinand Céline, al di là, certo, di tutte le implicazioni ideologiche a cui continua a prestarsi. Di Céline un esperto estimatore come Stefano Lanuzza (Céline della libertà, Stampa Alternativa) fa questo ritratto che bene si potrebbe adattare all’autore di Qui gli Austriaci sono più severi dei Borboni: “È un outsider e irregolare, un atipico e anomalo questo scrittore sempre difficile da incasellare”, come anche questo giudizio: “Forse, meglio dei sociologi, è un lucido pessimista (…) con la velleità di essere più altamente morale, a sollecitare il superamento degli ideologismi sempre vanificati da quelle negatività che nella natura umana appaiono immutabili più delle divisioni tra le classi: egoismo, superbia, invidia, avidità, avarizia, viltà, paura, stupidità, volontà di dominio…tare che conformano gli individui e impediscono il cambiamento delle condizioni di vita provocate dalle ingiustizie del potere detenuto dai ricchi”.
In questa eternità della parola, vera e libera come la sua, lo stesso Pozzoni mostra di avere fede (e, se anche fallisse ogni azienda elettrica, l’arte continuerebbe a brillare), nonostante la democrazia dell’amplifon, o l’arroganza dei dementi / che alzano la voce con i deboli leccando i culi dei potenti, nonostante domini il regno della dissoluzione di ogni forma poetica.
Per raccontare la sua rabbia che distrugge per vocazione di ricostruire, Pozzoni ( e questa linguisticamente è un’operazione interessante, non nuova, ma sempre difficile e coraggiosa) impasta insieme il linguaggio giornalistico, il turpiloquio, la terminologia specifica del web, espressioni del cosiddetto politichese, modi di dire del parlato, ritenendo che nessuna parola debba restare esclusa da questa babele immorale che è l’attuale compagine sociale. Parole pronunciate con tono ora dispregiativo, ora ironico, ora aggressivo, ora dolente, con pochi spazi lasciati alla tenerezza dei propri sentimenti, come quando fa entrare in scena la donna amata.
Accanto a lei c’è la donna-poesia, anch’essa amatissima: per quest’ultima il poeta soffre più di uno scoramento, forse perché sente che è l’espressione umana più votata al sacrificio di se stessa, la più violentata, la più offesa, la più soggetta alla menzogna.In fondo, tutta la scrittura di Ivan è un urlo di rabbia contro l’inautenticità dell’umanità odierna e del suo modo di raccontarsi attraverso una sorta di ostinato, imperdonabile tradimento della verità.
Franca Alaimo
18 Giugno 2015
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