NELL’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DELLA MADRE
1
Oggi il vespro mi coglie qui solo,
a guardia d’una casa abbandonata
in un’ora tanto cara agli dei;
ancora ti ricordo seduta
davanti al nostro pane e al nostro vino
al convito dei miei giovani pensieri,
proprio qui a questo tavolo vecchissimo
che ha rughe e cicatrici quasi umane
e ha conosciuto così tante generazioni
scomparse senza un segno senza un grido
dalla labile memoria degli uomini.
Mi figuro con rispetto e tenerezza
i loro atti semplici e antichi
come in questo pasto frugale:
gli stessi gesti, lo stesso misurato
pensieroso masticare, lo stesso
abbandono all’abbraccio del sonno
nel gran letto di ferro da sposi,
ara del mondo e culla della vita;
appena ieri
anche tu me l’hai consegnato
vuoto e già pronto ad accogliermi,
ma in esso io m’appresto a subire
dal buio delle notti che fuggono
insonne soltanto l’abbraccio
antico del dubbio e del timore.
2
Io solo, ora, resto a vegliare
col lumino davanti a un’immagine
le presenze dei morti che implorano
questa casa così vuota ma che un giorno
fu nido d’anatroccoli impazienti
e poi rifugio cui tornare da lontano
fatti cigni con le ali spezzate.
Ora resto in silenzio a vegliare
accanto ai nostri morti che non parlano,
mentre tutte le caverne della notte
poco a poco si aprono e gli oggetti
esitanti riprendono a muoversi
fra le anime inquiete dei vivi
per farsi lascivamente toccare:
il tavolo, le pentole vuote
appese al muro, gli orologi fermi,
il ritratto dei nonni da sposi,
ognuno con la sua fame d’amore
e la sua piccola speranza, ma le porte
sono chiuse al mondo degli uomini
col pesante coperchio d’un sarcofago;
ad essi è dato solo di udire
il proprio passo fra i vuoti rimbombi
e i lamenti delle stanze, soli echi
d’una casa lasciata morire
che a poco a poco più non vede e più non sente
ed è solo lo specchio di noi
ma che io ho timore di guardare.
Oh, mio amore lontano,
che stasera m’aspettavi fra le braccia
calde e vive del tuo letto umano,
chiamami, ti prego,
avvolgi di forti pensieri
la mia debolezza, fai presto,
prima ch’essa cada prigioniera
di un sonno sinistro pieno d’ombre.
3
Chissà per quanta gente è stato bara
il tuo umile letto di ferro,
nave sfortunata di fantasmi
dove adesso giaccio anch’io con la mia sposa,
ma incapace d’attendere composto
con dignità l’assalto della Morte;
e allora nella stretta del tempo,
come un ragno che ripara la sua tela,
faccio anch’io quell’amore disperato
che si vuole da me, la sola cosa
che conosco per farla retrocedere;
la mia sposa, carne della mia carne,
partorirà con dolore i miei figli
che come me si crederanno immortali
e col loro breve sorso di vita
a loro volta se ne andranno ignari
a riempire le fosse e i colombai,
forse perfino contenti
dei piaceri che la sorte gli ha dato.
Ma come può far retrocedere la Morte
trapiantare questi fragili geni
d’una vita che sfugge a noi stessi
dentro un utero anch’esso di carne
con un atto che chiamiamo d’amore
e che crea altri involucri di carne
senza neanche la speranza che contengano
un’anima a noi somigliante?
Essi forse sono solo estranei
che mai ci apparterranno, altri infelici
obbligati a portarci qualche fiore
il giorno fatidico dei morti
e destinati a scomparire anch’essi
nel vorace pozzo delle specie
mischiati con il fango della terra.
*
VENIERO SCARSELLI - ( 1931 - 2015 )
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