sabato 10 settembre 2016

SEGNALAZIONE VOLUMI = RAFFAELE PIAZZA

RECENSIONE di Vincenzo Moretti ad “Alessia” ----
Nel parlare di Raffaele Piazza (poeta napoletano noto a livello nazionale per la sua copiosa produzione letteraria e critica) e delle 69 poesie contenute in “Alessia” (ed. Associazione Salotto Culturale Rosso Veneziano, Napoli, 2014, Premio Tulliola 2016), sembra doveroso chiedersi: “chi è Alessia?”. È, etimologicamente, “colei che difende” dal disadorno, che dunque adorna la vita e la parola; è al contempo donna angelo e femmina desiderata con cruda sessualità; è la forza vitale dell’amore e della gioventù. Come nel rito cattolico, “Alessia” è memoria e ringraziamento per un trentennio, diaristicamente scandito, di vita “duale”. Rito poetico che il “nerovestito” Giovanni (etimologicamente: colui che Dio ha favorito? il profeta? o il dark salvato? l’autore?) officia con un cantico che, ispirato da una sincera meraviglia (meravigliato è l’autore nel rammentare, e tale meraviglia trasmette al lettore, incantato da una poiesis che gli regala storie ascrivibili all’“epica del quotidiano”) celebra Alessia “campita”, cioè pittoricamente trasfigurata come “Madonna barocca” e fissata icasticamente sullo sfondo degli spazi dell’amorosa vicenda predicabile (dal “Parco Virgiliano” della lirica d’apertura, alla più volte citata “auto stretta”, ai luoghi domestici ed “en plein air”, fino all’ “Albergo degli angeli, /camera n.8” degli ultimi versi del libro).
Una vicenda predicabile mediante temi e parole-tema ricorrenti, con le quali il poeta crea e ricrea una rete di soggetti accortamente assemblati e riproposti con sostanziali e mai vacue variazioni. Presenze che altri già hanno individuato e interpretato: gli uccelli e il loro monito agli amanti (“Attenzione!”), la mietitura che rinvia al raccolto poetico ed erotico (forsanche evangelico: con la separazione dal poetabile grano della vita dal loglio del “disadorno”); le “fragole” che hanno lo stesso sapore della bocca e del corpo, la “conchiglia” che rimanda al mistero di Afrodite (ma anche al “fossile tempo / di una storia bella, pari a conchiglia”: ovvero al fissarsi definitivo di una storia di per sé bella e resa ancor più esemplare in grazia della parola poetica). Altri temi sono presentati quasi in sordina. Per esempio, quello dei libri letti, con nomi di autori e di titoli (Sylvia Plath e Alda Merini, il “Canzoniere” petrarchesco e i “Fiori del male”), che forse sono sommesse dichiarazioni di poetica e caute ammissioni di affinità e di ascendenze. Oppure i criptici accenni ai figli: “Aria azzurrocielo, scia candida di jet / che passa (lì ci sono i figli)” – pag.58; “E in men che non si dica / solcare l’azzurro una rondine / di platino come jet a contenere / i nostri figli.” – pag.74.
Chi conosce le precedenti opere di Raffaele Piazza ritrova in “Alessia” tante delle succitate tematiche e parole-tema. Lo stesso nome di Alessia è rinvenibile in una poesia, “Camere per internet”, apparsa in apertura della silloge “Del sognato” (ed. La Vita Felice, Milano 2009). Ecco: “si chiama Alessia sta nel file segreto il / suo nome nelle tasche a fotografie / di quanti saranno i suoi figli / come le linee della sua mano portano ceste / di fortuna lineare lungo presagi di camminate vegetali da cliccare…”. Bastano questi pochi versi per comprendere come Piazza sappia passare da questi moduli espressivi modernisti (si pensi al lessico: “file, cliccare”; si noti la decostruzione della sintassi canonica in favore del libero accostamento analogico) ad altro compatto e differente progetto poetico: “Alessia”, opera nella quale l’attento Antonio Spagnuolo, nella sua densa ed esauriente “Prefazione”, ha ben intuito “una originale vaghezza di post moderno”. Un progetto poetico che si avvale di altri mezzi espressivi. Mi riferisco al lessico che comprende poetismi (“stellante, “azzurrità”, lucore”, “sembiante”), arcaismi (“polito”, “fabula”), termini peregrini (“inalveare”, “interanimarsi”), parole composte ascrivibili a una tradizione che va da Omero a Lucrezio a d’Annunzio (e che Raffaele Piazza rinnova con originalità: “cielovestito”, “oltresiepe”), vocaboli usati in accezioni non comuni (“esatta gioia”, “esatto stelo”, “mani affilate”). E ancora mi riferisco alla sintassi, caratterizzata da controllate e parsimoniose licenze, come dimostrano due fenomeni ricorrenti: l’uno, il disusato costrutto (del latino e dell’italiano neoclassico) del genitivo inserito all’interno di un altro sintagma (un esempio tra i più significativi: “nel giardino/ delle squadernate sul rettangolo di verde / rose profumate” – pag.66), l’altro, l’allentamento sintattico ottenuto mediante l’assai frequente uso della preposizione “a” + infinito con funzione polivalente (un caso limite: “Alessia nel futuro anteriore” – pag.63). Le sopraindicate ricorrenze lessicali e sintattiche non sono ascrivibili, le une a un’intenzione di classicheggiante panneggio, le altre a persistenza di maniere moderniste. Si tratta invece di sostanziali mezzi espressivi, volti a creare un tessuto fonico compatto e di non banale sonorità. Perché quelle parole, quei costrutti, così come gli esasperati enjambement (“la / conquista”, “a / imprimersi”, “per / fare l’amore”), le partizioni in gruppi di strofe divisi dallo spazio bianco e dal progressivo numero arabo ma unite dalla congiunzione copulativa “e” (come nei versi di “Alessia e l’albereto” –pag.56), la ben rilevabile ridondanza metaforica (basti questo esempio: “piove amniotica / pioggia sui campi dell’essere / in quel riseminato incantesimo // di gioia perenne nella fragola”– pag.65), le sapienti figure di suono (allitterazioni, rime, assonanze e consonanze), le iterazioni a distanza di parole o di enunciati, sono lì a produrre sovrabbondanza di senso, spessore di significato, ulteriori connotazioni affettive o meditative.
Questi versi che fingono una favola bella, politicamente corretta, dove non ci sono né lupi né orchi né streghe, dimostrano la vittoriosa concordanza tra quel che Raffaele Piazza ha voluto fare e quel che ha fatto. Ha vinto la scommessa di esprimere in un testo polisemico e tutt’altro che frivolo un suo gioioso mondo privato, dove, con buona pace di Eliot e di Montale, “aprile è il più bello dei mesi” (pag. 86) e “accade sempre di trovare / del bosco l’uscita, il filo tiene e l’onda / non sommerge” (pag.103).
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Vincenzo Moretti

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