Il male di vivere è pozzo e pace
“Fiori dell’anima” di Giuseppe Iuliano
La più recente raccolta di poesie di Giuseppe Iuliano (“Fiori di carta”, Delta3 Edizioni, Grottaminarda (Av) 2014 con una prefazione e una postfazione rispettivamente di Dante Della Terza e Peppe Lanzetta, e una nota sul risvolto di copertina di Paolo Saggese) è la conferma di una fedeltà intatta incrollabile a una vocazione laica e totale di resistere resistere resistere sul crinale, dove si incontrano parola poetica e contraddizioni della storia, accensioni di slanci ed echi di sofferenza. La storia e la sofferenza qui sono contattate e testate sotto l’aspetto del Mezzogiorno di oggi e di sempre, con riferimenti specifici al territorio di appartenenza, cioè l’Irpinia, dove, se si gratta la vernice di superficie della nostra tormentata contemporaneità, si scopre puntualmente fatalmente che lì dietro stanno in attesa di venire alla luce gli affreschi intriganti e paurosi dei primordi. E’ un vulnus, questo, che non si è mai rimarginato finora e che rischia di non rimarginarsi neppure domani, secondo il poeta, il quale, a rispecchiamento, fa sua tale ferita aperta, consapevole che in quella identificazione si giochi anche il suo destino, senza riserve, anzi con l’orgoglio di essere la costola in sofferenza di un’identità a rischio, ma ricca di tensioni al culmine, e di tanta memoria, che fa da bordo di abbrivio per il viaggio nella quotidianità e nella realtà più complessiva materiale e ideale. Così, la scansione e la pronunzia di ogni sillaba dei suoi tracciati avviene in stretta omologia col suo sentire o, meglio, col suo essere uomo del Sud. La sua parola, quindi, impegnata a vivere e a rappresentare il dramma di un mondo che cerca riscatto e risarcimento per i torti patiti, si sottrae in premessa alle distinzioni di generi letterari, di stili, di poetiche e di estetologie, attraversa i linguaggi trasversalmente e incurantemente delle sottigliezze stilistiche e retoriche, per aderire a quell’altra musica che è il dramma ineludibile e travolgente del suo, del nostro Sud. Nella sua voce egli è attentissimo a catturare e a far vibrare le voci delle situazioni reali nel loro porsi in essere per spirali, per frammenti, per urti all’interno e all’esterno. Per tale via, le parole diventano cose, incisioni di cose, voci di cose. Perciò, quando il poeta nomina il sale, il vino, la mensa, la semina, il campo lavorato, dice certamente quello che dice, ma dice anche tanto altro che è alle spalle del sale, del vino, della mensa. Il suo sale, il suo vino sono “più sale”, “più vino”, come si potrebbe dire parafrasando Alfonso Gatto (“Premessa” al “Capo sulla neve”), e, sotto tale aspetto, acquistano decoro e danno ornamento al messaggio. Giustamente, nella prefazione, Dante Della Terza sottolinea la qualità di questo dire, fatto di “parole ornate […] aggiuntive di nuovo calore poetico”.
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Ugo Piscopo
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