Antonio Lotierzo e Antonio Fortunato
Una utile e deliziosa sosta, con documenti, sui canti popolari lucani
I canti popolari, dall’Ottocento in qua, cioè dal romanticismo in poi, hanno acquistato sempre più nettamente e dignitosamente cittadinanza nella cultura ufficiale, ovvero dei vincitori. Da espressione di ambienti e ceti marginali, essi sono diventati patrimonio linguistico, musicale, artistico di tutti e per il godimento di tutti e, sul piano degli studi, hanno assunto una grande importanza per varie e fondamentali discipline, dalla letteratura alla storia, dall’antropologia alla sociologia e ad altre scienze umane. Ne dà riscontro la ricca, articolata, diramata bibliografia critica ed esegetica, che è tuttora in crescita. Oggi, questi documenti preziosi di arte e di cultura, soprattutto in Italia, attraverso l’accoglimento sempre più favorevole anche fuori degli ambiti accademici e scientifici, sta contribuendo a delineare un nuovo profilo del gusto, della sensibilità, della lingua in senso popolare, cosa che finora è stata abbastanza stentata e deficitaria da noi.
In questo mosaico di situazioni in svolgimento, degli utili tasselli sono inseriti da un volumetto gradevole e insieme culturalmente rigoroso, curato da due addetti ai lavori, Antonio Lotierzo, saggista e poeta, con notevoli contributi dati agli studi antropologici, e Antonio Fortunato, che, col figlio Giovanni, si dedica da anni al recupero e allo studio dell’oralità lucana. Ambedue lucani, essi, con la collaborazione anche di un musicologo, Riccardo Fittipaldi, ci regalano un volumetto gradevolissimo, agile, denso di suggerimenti: “Io tengo un organetto. Canti lucani”, Delta3 Edizioni, Grottaminarda (AV) 2015, pp. 119.
In esso, sono compresi 26 testi in originale, ognuno accompagnato da traduzione nell’italiano letterario e da note critiche, linguistiche, antropologiche essenziali, ma pertinenti e vibranti di guizzi intellettuali. Esauriente è il saggio introduttivo curato da Lotierzo, e opportuno il dialogo da lui intrattenuto con Fortunato. La materia raccolta non è di riporto, ma è fatta di documenti pubblicati adesso per la prima volta, con la consapevolezza dei giuochi variantistici complessi, che sono propri dei canti popolari. Come afferma un maestro di statura internazionale, quale lo spagnolo Menéndez Pidal, fondamentale deve essere in questi recuperi e complessivamente in questi studi la rigorosa attenzione per la geografia e per la storia dei canti popolari. E qui, gli autori hanno rispettato, senza adulterazioni e banalizzazioni testuali, i genuini reperti di una miniregione che va da Montella in Irpinia all’area cilentana nel Salernitano e a quella lucana, soprattutto del versante occidentale, come essi erano in realtà diffusi in un preciso periodo storico, secondo Novecento. La genuinità risulta da molteplici riscontri, tra i quali sono particolarmente significativi gli inserimenti del linguaggio della piccola borghesia, con il “suo italiano regionale”.
Tanto ancora bisognerebbe aggiungere sui procedimenti e i risultati conseguiti. I quali appartengono all’ambito delle ricerche, ma riescono in genere anche gradevoli alla lettura. Come in questo simpatico calco di una situazione furbesco-pulcinellesca:
“Care cumbare facimme nnu mmite,
tu puòrte a carna e ìje lu spiède.
Tu porta lu ppane, ca lu mìje è ndustate
porta lu vine, ca lu mìje è acìte.
Porta a miglièreta ca la mia è malata.
Care cumbare, che bella penzata!” (p. 59).
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Ugo Piscopo
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