MONTALE TEDESCO. Giancarlo Scorza traduce Eugenio Montale
La provincia italiana è da sempre il terreno di nascita e anche di crescita della nostra cultura. Una riprova parrebbe adesso arrivarci da un esiguo – quanto a numero di pagine - ma incuriosente e nel suo carattere decisamente considerevole libro edito dall’Archinto sul finire del 2018, "Montale tedesco", in cui compaiono le traduzioni di ventun liriche montaliane nella lingua di Goethe. Il fatto straordinario è che il lavoro di traduzione – dall’italiano al tedesco - è stato compiuto da un italiano, il pesarese Giancarlo Scorza, e non invece da un tedesco.
Scorza, intellettuale ed artista scomparso alcuni decenni fa, non era affatto nuovo all’impegno del tradurre. Si conoscono di lui svariate e impegnative versioni dal francese, dal tedesco, dall’inglese e ancora da altre lingue. Ma in tutti quei casi egli si muoveva su idiomi stranieri volti in italiano. Mentre, in "Montale tedesco", i testi di partenza sono quelli di Montale (tratti da "Ossi di seppia" e da "Le occasioni") mentre quelli in arrivo sono per l’appunto in una lingua straniera ardua e difficile.
Le traduzioni di cui qui si tratta vennero realizzate a cavallo tra il 1959 e il ’60. A suo tempo se ne era progettata la pubblicazione da parte di Giambattista Vicari, nondimeno mai effettuata per ragioni rimaste inesplicate. Nel frattempo Scorza andava proseguendo le sue attività letterarie e soprattutto artistiche. Giusto in quegli anni e poi nei decenni successivi, nella solitudine del suo atelier egli venne approfondendo e praticando l’arte dell’incisione spingendosi a perfezionare quelle tecniche che aveva studiato alla Scuola del Libro di Urbino e dandosi infine alla pittura, un ambito in cui oggi gli si riconoscono rilevanti risultati.
In parallelo alle attività del pittore e del grafico, rimaneva ovviamente la produzione dell’intellettuale e del saggista, sia pure nella forma di premesse ai testi da lui tradotti, o di recensioni e annotazioni in margine. Se insomma nell’ambito
artistico Scorza si esprimeva in prima persona, sia pure con tutto il riserbo di cui si volle ammantare, in letteratura egli scelse una via in cui la tensione verso una propria dimensione interiore si svolgeva – e in qualche misura anche si celava – dietro le misure di un intervento bilanciante tra il rapporto diretto e l’ermeneutica la natura specifica dei testi affrontati. Che è come dire la loro entità e il loro mistero.
La domanda è perché Scorza avesse scelto di tradurre Montale in tedesco (e insieme perché quand’egli era ancora in vita il suo lavoro non avesse visto la luce). Non è facile rispondere (ancorché gli apparati critici e filologici di "Montale tedesco" realizzati da chi scrive e da Alexandra Schneider, si siano provati a farlo). Ma è indubbio che se, in questo libro, l’elaborazione di superficie appartiene alle prerogative del traduttore, essa più ancora guida verso la dimensione dello scrittore in potenza che fu Scorza e anche verso ciò che lui pensava essere lo spazio della poesia.
Lavorando su "Lettera a un giovane poeta", un testo per lui fondamentale – e di lì riflettendo sulle indicazioni offerte dal suo autore, appunto Rilke - Giancarlo Scorza deriva una personale idea di avvicinamento ai testi (e congiuntamente di traduzione). L’operazione del tradurre doveva scivolare – e far penetrare – nel buio della scrittura poetica di partenza, a propria volta trascinata dalle parole e sulle parole verso un silenzio che meglio si pensava risaltasse – e qui siamo al Montale volto in tedesco – in una lingua che era altrettanto poetica quanto filosofica.
Nel tradurre con una lente che è sì filologica ma come si è detto anche interpretativa – e secondo una linea nella quale il testo stesso avesse da svilupparsi in un testo successivo intriso della vita precedente nota a tutti ma anche di un’ulteriore possibile vita – Scorza coagula il mannello di inquietudini che dovettero accompagnarlo in vita. Niente meglio di Montale poteva garantirgli una simile dimensione. Ma niente più di una lingua conosciuta e però non praticata e non vissuta nelle sue pieghe profonde, poteva agevolare l’approdo a una poesia da intendere nella sua assolutezza, libera da ogni sudditanza verso l’esterno e persino, si vorrebbe dire, dalla stessa letteratura.
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Gualtiero De Santi
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