Antonio Spagnuolo, "Canzoniere dell’assenza", Edizioni Kairos, Napoli, 2018, pp.91 - Prefazione di Silvio Perrella -
Quale postura etico-estetica assume Antonio Spagnuolo in Canzoniere dell'assenza, libro poetico nel quale il poeta-medico di Napoli volge l'occhio-sguardo-cuore verso Elena, l'amata compagna d'una vita? Sulla scia di Montale ma soltanto come progetto di poesia, o intenzioni d’ars poetica, in realtà però affrancandosi linguisticamente dal poeta de Le Occasioni, Spagnuolo scrive i suoi Xenia in un tessuto poetico verso l'assenza e nell'assenza dell’amata nel suo viaggio solitario verso l'onniscienza. Ogni poesia di questo Canzoniere è correlativo metafisico, oggettivo, di un mazzo di rose, il dono del poeta che lavora con fiori-parole da depositare sulla lastra di marmo della persona che occupò il centro della vita di chi resta su quest’altra sponda, battuto dalle tempeste della perdita, del vuoto, dell'assenza. "Desideravi un'altra primavera" dice Antonio Spagnuolo in questo verso struggente. Il quale verso, tuttavia, se suona come secco rimprovero al mondo in grado di sopprimere il desiderio di Elena di un'altra stagione di rinascita e di erbe nuove e fiori, lo stesso verso suona anche come secco, deciso gesto estetico, un atto estetico più forte della morte. Con questo gesto estetico il poeta vince la morte, anche se a un certo punto, arreso, ma solo in apparenza, Antonio Spagnuolo bisbiglia, più a sé che ad Elena, "Non ho più doni" [Attese]. In Prefazione, Silvio Perrella, dotto, padrone della lingua, capace com'è di entrare nella energia interna dei versi del Canzoniere di Antonio Spagnuolo, suggerisce l'idea che in fondo anche questa poesia è nel contempo "arte del linguaggio" e "arte conoscitiva" e se come arte del linguaggio si radica nella lingua, come arte conoscitiva la poesia di Spagnuolo è in grado di radicarsi nella storia, una storia personale ma che il poeta riesce a dilatare a storia universale. Una cifra [tutta di Spagnuolo] tuttavia merita io credo di essere evidenziata di questo libro poetico: i titoli che il poeta adotta per le poesie della raccolta [Tenerezza, Menzogne, Demone, Ricordi, Mani, Smerigli, Naufragi, Perle, Sonni, Luna, per citarne alcuni], tutti sostantivi che come tali possono essere accolti come i frammenti d'una vita in cui cercare gesti, atti, voci, suoni, fruscii, odori, colori dell'amata assente per riempirne l'assenza o quella che Barthes ha indicato come «presenza dell’assenza»,per catturarne il vuoto, come fa il vasaio di Heidegger con la brocca. Ma viene riproposto alla critica o all’accostamento analitico ai versi il vecchio problema del “segno-simbolo” nel suo dialettico rapporto con il “significato”, problema irrisolto che attraversa ancora gli scontri fra nominalisti («res sunt consequentia nominum») e realisti («nomina sunt consequentia rerum»). Scrive Antonio Spagnuolo:
«[…]L’iride improvvisa ha il mandorlo della gioventù Qualche bisbiglio tra le linee tracciate nei cristalli Per rilanciare promesse. La tua assenza scivola[…]». Ora, rivolgendomi a un lettore immaginario di poesia, sento di dovergli chiedere di non correre oltre. Di fermarsi un istante non già sulla mia nota ma su questi versi estratti dalla raccolta Canzoniere dell’assenza. Perché chiedo questa prova? Perché in poesia il lettore non è meno «creativo» del poeta che fabbrica i suoi versi. E anche perché un testo poetico che sia tale non è mai materiale di consumo, né potrà mai essere una merce usa-e-getta. Un testo poetico al contrario è sempre destinato al ri-uso poiché come insieme di parole strutturate, organizzate in forma stabile, un testo poetico se ri-letto non soltanto non si usura, non soltanto le parole del poeta non perdono valore, ma ne acquistano a ogni ri-lettura. Aggiungerei che ogni scritto critico, dalla semplice nota alla recensione al saggio e fino alla storia letteraria, dovrebbe avere la valenza di un «invito alla lettura» di un certo poeta; dovrebbe essere cioè «il dito che indica la luna» e nulla di più, ma sappiamo che quasi tutti i lettori invece tendono a soffermarsi sul dito del critico e non spingono mai lo sguardo sulla luna-poesia indicata dal suo dito. «[…]Sulle mie ossa in bilico/ La mia rassegnazione non ha più posto».
Sono versi che pur in differenti prosodie ma con in comune l’identico metro elegiaco possono benissimo andare a confluire in quella immensa miniera di epigrammi a noi giunta come Antologia Palatina, come mostra l’epigramma di Meleagro che da essa estraggo: Meleagro, da Antologia Palatina «[…] Ma al mattino si sentì un grido. Il coro mutò in nenia funebre il canto. La stessa torcia dopo avere rischiarato il letto nuziale Accompagnò con la sua luce l’ultimo viaggio».
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Gino Rago
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