Edith Dzieduszycka, "Diario di un addio", Passigli Editore, 2007, pp.175
Raramente si avverte nella poesia contemporanea un distacco netto da ogni forma di inclinazione all’epigonismo, come succede invece in Diario di un addio di Edith Dzieduszycka. In questi versi la poesia viene ricondotta nell’alveo che le spetta quale espressione della profondità dell’essere volta a rivelazione di verità. La poesia di Edith è leopardianamente collegata con la morte. Con la morte di Michele, il compagno d’una vita. La forza di Diario di un addio, forza non ideologica ma etica, è nella intuizione della “morte” quale punto d’incontro, d’intersecazione tra le due categorie care a Carlo Diano: la morte come evento supremo e la morte come estrema forma. Nella difesa della propria cifra stilistica personale, la Dzieduszycka lega l’esercizio poetico strettamente alla forma/evento morte, meglio, alla contemplazione della morte. Ma proprio in quest’atto Edith Dzieduszycka pone l’esperienza poetica come strumento, l’unico strumento, capace di trasformare la meditatio mortis in vittoria sulla morte. La poesia di Edith de Hody Dzieduszycka viene da lontano, una lontananza di spazio e di tempo, di geografia e di storia, di paesaggi e di vicende; abitatrice di spazi, Edith abita da poeta soprattutto le parole e la poesia di questa raccolta icasticamente riesce a dire tanto in fatto di "parole abitate". “Rose rosse/ mi offrivi per/ i miei compleanni/ rose rosse/ ti resi”. Così Edith in Rose. Le rose come “ultima coperta” per Michele che da lei si diparte. È un gesto estetico possente, chiaro, definitivo. E’ un gesto estetico più forte della morte. Diario di un addio come punto di convergenza di varie poetiche (poetica dell’oggetto, poetica dell’assenza, poetica della memoria, poetica dell’aura e dell’hic et nunc) ad elevata resa estetica per una “parola” necessaria, in grado di vibrare in una fono-prosodia ad alta tensione ritmica, di fine qualità espressiva e di icastica potenza simbolico-allusiva. In La Belligeranza del Tramonto (2006) di Giorgio Linguaglossa, il filosofo Ipponatte parla:«Non amate i fiori che nascono tra i fiori». Di questa massima Edith Dzieduszycka ha fatto propria l’esortazione linguaglossiana e si è sottratta a ogni tentazione epigonica. In una nota Giorgio Linguaglossa scrive:«Lo stile di Edith: una dizione diretta delle cose, una nominazione di oggetti che se ne stanno lì nella inappariscenza della loro presenza, quegli oggetti che ci accompagnano e che sopravvivono dopo la morte di un nostro caro, o di noi stessi. Gli oggetti allora parlano. Diventano misteriosi. Ricordano qualcuno che è stato con loro. Il loro mutismo ci parla con forza[…]. Quando la poesia di Edith si trova a dover fare i conti con la morte, allora, a mio avviso, attinge gli esiti più alti. In fin dei conti è questa la lezione di Edith sul tema dell’«autenticità», di volerci offrire un breviario, un Tagebuch di pensieri che ci attraversano, proprio come gli oggetti che attraversano la nostra esistenza[…]». Per Linguaglossa è anche una «poesia degli oggetti» questa di Edith Dzieduszycka, ma di oggetti colti nel punto critico di convertirsi in "cose", come deve essere necessariamente nella poesia verso l'autenticità, come ad esempio in questi versi (Alone): “ Mi circonda/ un alone di nebbia/ una patina grigia/posata sulle cose/ Amaro/ il sapore dell’onda/ che mi avvolge/ come scura/pesante/la terra che ti copre.” ove si avverte la precarietà del pensiero non identificante che indugia sulle cose. Ma proprio da tale precarietà il poeta assume la consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché, ma è pur sempre qualcosa di insostituibile, di importante nella mai tranquilla economia del vivere.
Gino Rago
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