Poesia contemporanea: Gino Rago per Clemente Rebora
Clementa Rebora (1885-1957)
La Poesia è un miele
La poesia è un miele che il poeta,
in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via;
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
in quanti fiori sosta, e va profondo
come l’ape il poeta!
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nettare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Cosi porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la meta
che il Signor serba a chi fallendo asseta.
*
(da Canti dell’infermità)
Commento:
Questi versi di Clemente Rebora se da un lato non dimenticano la quasi classica istanza didascalica della poesia, versi aperti come sono alla tematica di quella “fratellanza” volta a trovare l’uomo solidale con Dio, dall’altro sono versi esemplari del “frammentismo vociano”, troppo spesso e troppo superficialmente confuso con la NOE (nuova ontologia estetica) per frammenti.
La metafora reboriana «miele-poesia-poeta-ape» si sa che è di antiche origini. Ma nell’ars poetica di Rebora funziona come preparatoria alla parola-chiave della composizione: «dolorando». E decisivo è il verso nel corpo della poesia «delle ultime cose» che l’ape-poeta accoglie «perché sian prime», come ad attribuire alla ars poetica il primato inarrestabile della bellezza e della verità del vivere nell’armonia uomo-vita-mondo.
Il rispetto e l’ammirazione verso questo frammentista vociano sono fuori discussione. Ma oggi, a distanza di quasi 100 anni, un secolo, da questi versi, è inevitabile che la poesia esplori nuovi sentieri estetici, che viaggi verso altri approdi “formali”, sentieri e approdi che son chiamati a misurarsi con l’idea di recente lanciata da Giorgio Linguaglossa (e che io trovo del tutto nuova e originale, visto che finora da nessuno studioso di poesia era stata non dico elaborata ma neanche minimamente pensata ) di “Spazio espressivo integrale”, vale a dire quello spazio linguistico-formale che tenga conto di tutte le moderne percezioni di “tempo”, di “nome”, di “immagine”, di
“proposizione” con cui il poeta contemporaneo deve fare i conti se vuole sottrarsi al ruolo epigonico, di basso tono del “seguace”, del continuatore giacente supino nella stagnazione.
Stagnazione non soltanto etico-morale ma estetica dove le parole rischiano di cadere nel Grande Gelo linguistico per farsi «parole disabitate». Il poeta dei nostri giorni deve al contrario essere abitatore non soltanto di spazi, di paesaggi, di geografie ma abitatore di parole in una sua ben precisa «patria linguistica», com’è nel caso esemplare di Antonio Spagnuolo in “Movenze” in cui il medico-poeta di Napoli appare sincero «abitatore-delle-sue-parole», delle parole estratte dal magma linguistico e con le quali Spagnuolo allestisce il tessuto della sua poesia, che sento assai affine a quella reboriana.
Gino Rago
Nessun commento:
Posta un commento