domenica 1 dicembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = CARLO MICHELSTAEDTER

Carlo Michelstaedter, POESIE, Piccola Biblioteca Adelphi, Milano, pp.130, 10 Euro -
A cura di Sergio Campailla

Quali fenomeni linguistici possono proporsi o semplicemente affacciarsi nel far poesia allorché una più o meno lunga tradizione letteraria e anche un intero sistema stilistico cadono d’un tratto in frantumi determinando un vuoto? Tale vuoto nasce da un qualcosa dentro la letteratura o al di fuori di essa? Questo vuoto può dar luogo all’avvento di nuovi linguaggi?

Dalla critica più agguerrita e competente abbiamo appreso che al mutamento della società cambia anche la vita stessa delle persone. La conseguenza più diretta ed inevitabile è la rottura di quello che viene indicato come “patto comunicativo” fra poeta e pubblico: cioè, allo sgretolarsi di questo patto si assiste alla rottura di quella sorta di intesa, di accordo fra autore e pubblico.

Ciò è quanto si è verificato anche nel Novecento letterario- poetico italiano dopo la scomparsa di coloro che vengono definiti Autori-Evento, Autori che con la loro opera (per esempio Baudelaire, Whitman, Dostoevskij, Rimbaud, Nietzsche, Freud) spezzano l’accordo preesistente letteratura-pubblico e niente più– romanzo, estetica, filosofia, poesia – rimane come prima. In Italia, Dino Campana (morto in manicomio) è il poeta che segna l’interruzione della continuità del “patto comunicativo” cui si è fatto cenno. Con Carlo Michelstaedter (morto suicida ad appena 23 anni) questa interruzione si rafforza e diviene definitiva.

La poesia più nota di Michelstaedter, quella per la quale è comunemente conosciuto, è certamente

Il canto delle crisalidi

“Vita, morte,/ la vita nella morte;/ morte, vita,/ la morte nella vita./ Noi col filo/ col filo della vita/ nostra sorte/ filammo a questa morte./ E più forte/ è il sogno della vita/ - se la morte/ a vivere ci aita/ ma la vita/ la vita non è vita/ se la morte/ la morte è nella vita/ e la morte/ morte non è finita/ se più forte/ per lei vive la vita./ Ma se vita/ sarà la nostra morte/ nella vita/ viviam solo la morte
morte, vita, /la morte nella vita;/ vita,/ morte,/ la vita/ nella morte.” Per spiegare in parte questo ossessivo richiamo alla dicotomia Vita/Morte bisogna partire dal fatto che molti poeti nati alla fine del XIX secolo, nati quindi fra il 1880 e 1890, non avvertirono l’arrivo del ’900 come un fenomeno liberatorio (lo fu soltanto, qualcuno ha scritto, per i futuristi). Al contrario, lo vissero come qualcosa di luttuoso al punto da essere dominati da un continuo senso di malinconia e destabilizzazione,di angoscia, smarrimento, disobbedienza e senso di solitudine. Una intera generazione di poeti è stretta nello stato di necessità di un nuovo modo di esprimersi, e dunque di sentire la poesia e di scriverla: né possono bastare i due estremi poetici coincidenti da un lato con le vecchie scenografie ottocentesche di Gozzano e dall’altro con le innovazioni radicali di Ungaretti.

Cambia l’esistenza degli autori e cambiano metodo e impiego del linguaggio. In Michelstaedter, però, l’esigenza della modernità poetica assume la forma del rifiuto della modernità sociale. Tutto ciò è evidente nella poesia Risveglio:

Risveglio

“Giaccio fra l’erbe
sulla schiena del monte, e beve il sole
il mio corpo che il vento m’accarezza,
e sfiorano il mio capo i fiori e l’erbe
ch’agita il vento
e lo sciame rombante degl’insetti.
Delle rondini il volo affaccendato
segna di curve rotte il cielo azzurro,
e trae nell’alto vasti cerchi il largo
volo de’ falchi…
Vita?! Vita?! Qui l’erbe, qui la terra,
qui il vento, qui gli uccelli, qui gl’insetti,
e pur fra questi sente vede gode,
sta sotto il vento a farsi vellicare,
sta sotto il sole a suggere il calore,
sta sotto il cielo sulla buona terra
questo ch’io chiamo io, ma ch’io non sono.
No, non son questo corpo, queste membra
prostrate qui fra l’erbe sulla terra,
più ch’io non sia gl’insetti o l’erbe o i fiori,
o i falchi su nell’aria o il vento o il sole.
Io son solo, lontano, io son diverso.
Altro sole, altro vento, e più superbo
volo per altri cieli, è la mia vita ….
Ma ora qui che aspetto?
E la mia vita
perché non vive,
perché non avviene?”

Michelstaedter sembra che mediti e scriva, come rilevato dalla critica più competente, restando sempre “alle soglie della vita”, intende la vita così carica di pienezza che sceglie di non viverla restandone ai margini, ma nella fedeltà irriducibile anche allo spirito che aleggia nella sua tesi di laurea La persuasione e la rettorica, il cui nucleo ideale e morale va indagato nell’antitesi tra esistenza individuale e storicità sociale che è in grado di travolgerla o di negarla o di deviarla dal suo corso e da se stessa.

Poi, in un giorno d’autunno lo sparo partì.

Michelstaedter venne seppellito nel cimitero israelita di Valdirose, oggi situato in territorio sloveno, poco al di là del confine con l’Italia. Carlo riposa accanto al fratello Gino, all’ombra di due grandi cipressi.

Proprio quell’apparato menzognero (da lui odiato e magnificamente descritto nella sua opera) che lo aveva spinto al suicidio continuò a imperversare fino a determinare le più efferate atrocità del XX secolo, che coinvolsero anche i suoi affetti più cari: sua madre, la sorella maggiore Elda e la fidanzata Argia Cassini morirono, infatti, in una camera a gas nazista.

Tutta la sua opera di Carlo Michelstae è stata pubblicata postuma.

Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia il 3 giugno 1887, ultimo di quattro figli di una famiglia ebrea benestante. Frequenta il prestigioso Staatsgymnasium senza eccellere particolarmente negli studi. Si iscrive alla facoltà di matematica dell’Università di Vienna che, però, lascia per frequentare l’Istituto di Studi Superiori di Firenze. Il rapporto intellettuale e con ogni probabilità anche sentimentale con una signora russa residente a Firenze, Nadia Baraden, si conclude bruscamente con il suicidio di questa.

Anche il fratello Gino muore a New York in circostanze misteriose, che fanno parlare di suicidio. Nel giugno 1909 torna definitivamente a Gorizia legandosi sentimentalmente a una pianista di talento, Argia Cassini, a cui dedica le poesie A Senia e I figli del mare. Lavora accanitamente alla tesi di laurea La persuasione e la rettorica che termina il 17 ottobre 1910. Proprio in quel giorno la madre Emma compie cinquantasei anni. Dalla collina, dov’era in vacanza, scende in città per salutare il figlio, che vedeva migliore degli altri giovani, ma solo e scontento: lo rimprovera di sentirsi trascurata; ma Carlo questa volta reagisce con uno scatto di collera e le chiede di tornare più tardi perché ha appuntamento con Argia. Invece, rimasto solo, prende la rivoltella, tolta a un amico per evitare che potesse compiere un gesto inconsulto, e si spara. Sono le due del pomeriggio del 10 del mese di ottobre del 1910.

Dal risvolto di copertina di questo classico della Poesia italiana riproposto in svariate edizioni dalla Piccola Biblioteca Adelphi apprendiamo:«Le poesie di Michelstaedter, finora troppo poco conosciute, ci fanno sentire, in un’altra forma, la stessa vibrazione estrema di La persuasione e la rettorica. Composte fra il 1905 e il 1910, risentono solo superficialmente del clima letterario italiano di quegli anni. Mentre subito vi affiorano quei temi ultimi a cui Michelstaedter dedicò la sua riflessione filosofica: i temi di chi è mosso da un’invincibile vocazione a spingersi di là dal bordo della vita, «amore e morte, l’universo e ’l nulla». All’inizio con timbro adolescenziale, e ancora tenuto alla sudditanza verso temi obbligati, poi con un piglio sempre più sicuro, e distaccandosi rapidamente da ogni dipendenza, Michelstaedter svela anche qui il suo dono specifico, quello dell’immediatezza nel pensiero, e ci guida «onda per onda» attraverso un mare sempre più aperto e pericoloso, il vero «mare dove l’onda non arriva», un mare assente, rispetto al quale si può dire che «tutta è la vita arida e deserta, / finché in un punto si raccolga in porto, / di sé stessa in un punto faccia fiamma». Non è difficile comprendere, anche in considerazione di altre vicende umane e poetiche (Cesare Pavese, Lorenzo Calogero, Michele Rio, Franco Costabile…) affini a quella di Michelstaedter, che di poesia si può morire, di poesia si muore.
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Gino Rago

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