Giorgio Linguaglossa (a cura di), AA.VV., Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Antologia poesia italiana contemporanea, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2017, pp.352, 18 euro
La Introduzione di Giorgio Linguaglossa, curatore di questa antologia poetica, non lascia margini ad ulteriori dubbi: si è chiusa in modo definitivo la stagione del post-sperimentalismo novecentesco, si sono esaurite le proposte di mini canoni e di mini progetti lanciati da sponde poetiche le più diverse ma per motivi, diciamo, elettoralistici e auto pubblicitari, si sono esaurite anche la questione e la stagione dei «linguaggi poetici», anche di quelli finiti nel buco dell’ozono del nulla; la poesia italiana sembra essere arrivata ad un punto di gassosità e di rarefazione dalle quali non sembra esservi più ritorno. Questo è il panorama, se guardiamo alle pubblicazioni delle collane a diffusione nazionale, come eufemisticamente si diceva una volta nel lontano Novecento. Se invece gettiamo uno sguardo retrospettivo libero da pregiudizi sul contemporaneo al di fuori delle proposte editoriali maggioritarie, ci accorgiamo di una grande vivacità della poesia contemporanea. È questo l’aspetto più importante, credo, del rilevamento del “polso” della poesia contemporanea. Restano sul terreno voci poetiche totalmente dissimili ma tutte portatrici di linee di ricerca originali e innovative. Molte delle voci di poesia antologizzate vibrano, con rara consapevolezza dei propri strumenti linguistici, in quell’area denominata Epoca della stagnazione estetica e spirituale, che non significa riduttivamente stagnazione della poesia ma auto consapevolezza da parte dei poeti più dotati di intelligenza poetica della necessità di intraprendere strade nuove di indagine di poesia riallacciandosi alle poetiche del modernismo europeo per una «forma-poesia» sufficientemente ampia che sappia farsi portavoce delle nuove esigenze espressive della nostra epoca.
Innanzitutto, il decano della nuova poesia è espressamente indicato nella persona di Alfredo de Palchi, il poeta che con Sessioni per l’analista del 1967, inaugura una poesia frammentata e proto sperimentale, una linea che, purtroppo, rimarrà priva di sviluppo nella poesia italiana del tardo Novecento ma che è bene, in questa sede, rimarcare per riallacciare un discorso interrotto. Un percorso che riprenderà Maria Rosaria Madonna con il suo libro del 1992, Stige, forse il discorso più frammentato del Novecento, dove il «frammento è l’intervento della morte dell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza» (T.W. Adorno Teoria estetica, 1970 Einaudi). Un discorso sul «frammento» in poesia ci porterebbe lontano ma ci aiuterebbe a collocare certe opere del Novecento, come quella citata di de Palchi con l’altra di Maria Rosaria Madonna. In un certo senso, questa Antologia vuole riallacciare un «discorso interrotto», collegare i «membra disiecta», capire le ragioni che lo hanno «interrotto» per ripartire con maggiore consapevolezza da un nuovo discorso critico della poesia del secondo Novecento. Forse adesso i tempi sono maturi per rimettere al centro della poesia italiana del secondo Novecento poeti come Alfredo de Palchi e Angelo Maria Ripellino (ma anche Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher) ingiustamente dimenticati. Ne uscirebbe una nuova mappa della poesia italiana. In fin dei conti, questa Antologia vuole essere un contributo per la rilettura della poesia del secondo Novecento. Se c’è una unica chiave di lettura della poesia del Presente essa sta, a mio avviso, nello spartiacque rispetto alle Antologie storiche come Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli che apriva ad un’epoca della «poesia-massa» e ai poeti «uomini di fede», non più «intellettuali» a tutto tondo come quelli della precedente generazione poetica. I poeti dell’epoca della stagnazione sono dei solisti e degli isolati, sanno di essere fuori mercato e fuori moda, sanno di essere dei reperti post-massa e ne accettano le conseguenze: Annamaria De Pietro, Carlo Bordini, Renato Minore, Lucio Mayoor Tosi, Alfredo Rienzi, Anna Ventura, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco-Ratgheb, Edith Dzieduszycka, Mario M. Gabriele, Stefanie Golisch, Ubaldo De Robertis, Guglielmo Aprile, Flavio Almerighi, Gino Rago, Giuseppina Di Leo, Giuseppe Talìa (ex Panetta) sono autori non legati da rapporti amicali o di gruppo, personalità indipendenti che si sono mosse da tempo e si muovono ciascuna per proprio cont, ma in direzione d’un
eurocentrismo «critico » e dunque proiettate oltre la crisi, oltre Il postmoderno, oltre il problema dei linguaggi poetici epigonici. Alcuni autori fanno una poesia del presente ablativo (Flavio Almerighi, Giulia Perroni, Luigi Celi, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli), altri adottano lo scandaglio mitico del “modernismo” europeo: si guarda a narratori come Joyce con l’Ulisse, a Salman Rushdie con Versetti satanici (1998), a T.S. Eliot con La Terra Desolata, ma anche a Mandel’stam, Pasternak, Cvetaeva, agli svedesi Tomas Tranströmer , Lars Gustafsson, Kjell Espmark, ai polacchi Milosz, Herbert, Różewicz, Szymborska, Zagajewskij, Lipska, si rivisitano alcuni miti da traslare nello spirito del contemporaneo.
Poesia che adotta il metodo mitico come allegoria del tempo presente (Rossella Cerniglia, Francesca Diano, Giorgio Linguaglossa, Gino Rago) con esiti notevoli. Si tratta di autori nuovi ma non più giovanissimi né nuovissimi, l’aspetto più appariscente è l’assenza dei poeti delle nuove generazioni, e questo è un elemento degno di essere sottolineato, approfondito e che consegno alla riflessione dei lettori. C’è una diffusa consapevolezza della Crisi dei linguaggi e della rappresentazione poetica quale dato di fatto da cui prendere atto e ripartire; sono i poeti «abilitati dalla consapevolezza della frammentazione dei linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante» – come giustamente segnala Giorgio Linguaglossa in Prefazione – sono i poeti antologizzati che spingono il metodo mitico nella forma del «frammento», accelerando la crisi di quell’«Io» non più centro unificante delle esperienze, né più unità di misura del reale, ma ente frantumato, disgregato della realtà nella quale una certa «coscienza» di ciò che è da considerarsi «poetico» è tramontata forse irrimediabilmente ed ha smesso d’essere luogo della sintesi. L’«io» è stato de-territorializzato definitivamente, e di questo bisogna, credo, prendere atto tirandone le conseguenze. Direi che la nuova poesia guarda con interesse ai nuovi indirizzi della fisica teorica, della cosmologia, della biogenetica, in una parola pensa ad una nuova ontologia del poetico. Ulteriori notizie possono essere attinte dalle meditazioni di Luigi Celi su Come è finita la guerra di Troia non ricordo e che riguardano altre voci poetiche antologizzate e dalla acuta lettura fatta da Mario Gabriele (su L’Ombra delle Parole).
Letizia Leone e Giuseppe Talia, Maro Gabriele, Francesca Dono, Gino Rago, Lucio Mayoor Tosi, Giorgio Linguaglossa e, in parte, Edith Dzieduszycka, hanno iniziato un serio lavoro sul Logos e sulla forma-poesia mettendo nei loro versi alcuni silenziatori in grado di generare sufficienti distanze da compiutezza e ricchezza, da simmetria, horror vacui, ossessione del pieno d’Occidente e da quell’«equilibrio stabile» della lunga tradizione petrarchesca. Non è facile. Ma tentano di rispondere con il frammento, l’ibridazione linguistica, il parlato in forma di dialogo, le linee di forze interne alle cose dentro la poetica degli oggetti del campo espressivo integrale, fatto soltanto di «parole abitate», nel rapporto brodskijano creditorio-debitorio con le immagini.
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Gino Rago
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