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Stelvio Di Spigno: “Minimo umano” – Ed. Marcos y Marcos – 2020 – pagg. 96 - € 18,00
Stelvio Di Spigno offre alla poesia una calda ed ampia preparazione culturale e dal dettato rigorosamente ricamato riesce a far emergere quel ritmo orecchiabile che distingue la lirica alta. L’agilità e la scorrevolezza della scrittura, dentro il rovello dell’esistenza quotidiana, ha la capacità di comunicare la profondità dei sentimenti tra analisi e consapevolezza del reale quale visione multicolore della narrazione.
La parola poetica al giorno d’oggi è ancora alla ricerca di un mondo che ritrovi armonie, che in realtà hanno origini sempre più lontane, in continuità con le ambasce misteriosamente affondate nelle circonvoluzioni cerebrali, ed il poeta agguerrito è qui affondato in uno specchio cangiante, che permette percezioni da affrontare ed attraversare, che palpeggia la fragilità della vita, il dramma della perdita, lo sbandamento della illusioni, in vertiginosa ambascia per la riconquista della propria presenza .
Sette le sezioni che caratterizzano questo volume in un crescendo di illuminazioni: “preludi”, “versi morali”, “elegie finali”, “terra e cielo”, “il mondo estremo, “la vita facile”, “congedi”, quasi a tratteggiare un viaggio tra le domande impellenti e l’epilogo di una immaginaria tempesta, consapevolmente immerso nella ondulazione esistenziale.
L’atmosfera intima, a volte cupa, ha sequenze che sono vera e propria narrazione, in un’attesa illusoria percepita dentro un fluire inteso come elemento del tempo e dell’esserci, in continua metamorfosi che unisce emotività e razionalità.
“Una punta di universo caduta qui,/ per noi e nessun altro. Ti aspetto,/ da sempre, come una certezza. Perché/ vivere è un traforo che bisogna/ attraversare…”
“Lascerò il programma del mondo, il ricavo quotidiano” scrive ad un certo punto Stelvio, quasi a voler dichiarare una inaspettata sconfitta, un arrendersi alle intemperie per un “sonno senza più domini”.
Il poeta ha solo 45 anni, non si arrende facilmente ed aspetta con elegante timore: “Faccio la spola/ tra il ricordo e una moneta, tra l’amore/ e l’arena, tra il terriccio e le stelle,/ ma un Dio ancora esiste, un Dio/ che basta/ a me stesso, a se stesso, sublime/ come un esilio, trionfante/ in ciò che ancora vive…” Una dinamica interiore per la quale il sub conscio cerca continuamente di riappropriarsi del proprio Sé, inoltrandosi in un labirinto immaginario che produce orizzonti di senso onirico e a tratti surreali, anche quando un accenno di preghiera tenta nel sussurro di sciogliere le catene del presente.
L’emozione di un desiderio acuisce la fantasia, ma il poeta insiste nella immaginazione della inarrestabile corruzione del corpo, dai muscoli indeboliti ai capelli bianchi, dalla tachipnea alla implorata resurrezione: “Quando l’anima si staccherà da te/ e andrà lì dove tutto si crea,/ tu che non vuoi morire,/ col tuo vestito a festa/ carico di rammendi,/ brillerai per le strade.”
Allungare il “verso” oltre gli spazi che superano la nostra precarietà significa agguantare la coda dell’inarrivabile, dato che non ci è consentito di essere “tutto”, fra il giorno e la notte, fra l’umano e il divino, fra l’assoluto e il relativo, per costituire il tormento del nostro esserci, e qui il poeta cerca di ovviare confondendo il suo pathos nelle fusioni dell’inquietudine, con lo sguardo rivolto all’oltre e il pugno ben chiuso sulla materia.
ANTONIO SPAGNUOLO
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