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Leonardo Manetti – "sChianti" (ed. Tempo Al Libro) - 2013 - pagg.52 - € 7,65
La poesia può essere semplicemente composta da attimi di esitazione deliziati dalla sensibilità di una persona che non molla, ricominciando a vivere d’incantesimi che si schiudono per gesti cordiali, che si armonizzano flebilmente.
Versi, quelli di sChianti, consci di una gioia totalizzante, tutta da tastare, di una fonte d’energia da mirare assolutamente (“ La Luna è come il Sole: prima t’illumina e poi se ne va ”), che altrimenti scompare in un parlato assente, da rendere coinvolgente spogliandoci del terrore per un destino che nessuno ci può assegnare con forza (“ Parole senza suono ci uniscono all’ascolto ”).
Un singolo atterraggio dall’immaginario è in grado di riaccendere l’umore di Manetti, quella volontà silente nel richiedere spiegazioni guardandoci con cura, per appoggiarci reciprocamente, coraggiosamente (“ Un salvagente senza timore ”), e venire così ritoccati dai raggi solari che a sorpresa ti confidano che siamo futuribili, seppur oppressi da nubi che fanno presagire niente di buono, volgendo praticamente lo sguardo all’insù.
La lettura dell’opera è gravida di una curiosità fanciullesca, ci riporta a un arcobaleno che non puoi fare a meno di osservare (“ Esclamo ‘che bello’ ”), mentre il tempo passa normalizzando, scandito da melodie sincere, in un paesello carico di valori da trasmettere alle nuove generazioni, che si fa scorgere amabilmente, naturalmente, tra l’umiltà nel coltivare del benessere e la speranza di rispuntare allegramente dalla terra, a caratterizzare insomma una località che si è fatta da sé.
V’è tutta una disponibilità da consacrare… limiti umani, minuscoli, che si approcciano tra di loro, come se sospesi in aria per poi ricadere, piano, su una stima floreale; come se il poeta appartenesse a una quiete che gli permette di concentrarsi sulla sua anima, anche a costo di stare male e ammutolirsi, con la fisicità da sondare, pericolante.
Emerge tanta preoccupazione (“ Ansia raccolta in vasi bucati ”) che risulta compressa e oscurantista perché non si condivide il fatto che l’emotività la si possa ritrovare nelle piccole cose a contraddistinguere l’immensità di ogni sensazione d’appurare, fino a tenere conto, in modo shakespeariano, magari di provare amore per una donna che si reputa di per sé ancora estranea (“ Tu vivi tenacemente nel mio cuore ”); sbizzarrendoti, per poi volgersi all’indietro, a scontare un percorso irto di ostacoli riconducibili al pessimismo, con lo sconforto visibile, stagnante su una guancia d’accarezzare, sulla pelle che si incide per dell’inconcludenza da intendere oggettivamente affinché traspaia e ci si meravigli di un cielo reso complicato impugnando una sottospecie di cronometro, e assorbendo, come degli imperfetti strumenti dell’ignoto, la stoltezza epocale, una variante episodica sancita tristemente da noi stessi che ci muoviamo maldestramente, senza aver lucidato il particolare che avvantaggia il buonsenso al cospetto della memoria comune, intrisa di malafede; da soli, alla faccia dei rumori.
Leonardo Manetti nutre il desiderio di approfondire il contenuto dei suoi polmoni, quando l’espressività attorno a lui si congela, si aggrappa a un’indole bestiale, con la comunicazione che si sta allontanando dal sempre di un termine da sillabare qual è Amore (“ Le parole sono difficili se scrivono Amore ”) .
L’autore attraverso la poesia risponde a una tragedia sorda, disinnescata lentamente grazie a degli affetti autentici, che non si smette mai di riscoprire (“ La magia della parola ‘StraAmore’ ”); a un incidente stradale che lo ha rimpicciolito per maturare definitivamente e riprodurre una netta sinergia tra le proprie origini, tra odori e sapori; un guadagno imperturbabile senza esagerare con le aspirazioni, ma perseguendo dell’abitudinaria carineria; per cogliere, prima di quel sogno che è la felicità, il piacere di stare in pace per ritenersi giustappunto innocenti, contenti di possedere della solidarietà intramontabile.
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VINCENZO CALO'
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