SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE
***I Canti del pilota*** I Canti del pilota è il titolo del penultimo libro pubblicato dalla poetessa italo-argentina Francesca Lo Bue, una delle voci più originali del panorama letterario degli ultimi anni.
Uscito nel 2019 a Roma, presso la Società Editrice Dante Alighieri, non ha fino a questo momento incontrato tutto l'interesse che merita (a parte alcune puntuali segnalazioni, come quella firmata da Raffaele Piazza sulla rivista online “Literary”, 1,2020); la causa di questa lacuna, a cui si vuole ora rimediare, va ricercata essenzialmente nella brusca interruzione delle attività e delle iniziative di carattere culturale, nonché dei contatti personali (meglio conosciuta come lockdown ) che ci ha colpiti tra il 2020 e il 2021 in seguito alla pandemia del Covid19.
L'elegante volumetto, che la poetessa ha dedicato ai suoi tre figli: Giovanni, Nicolò e Rosa, contiene 98 componimenti in versi liberi, presentati in una doppia redazione bilingue, di cui la prima in spagnolo seguita dalla versione in italiano; quest'ultima, tuttavia, non deve essere interpretata semplicemente come una traduzione letterale della prima: per chi conosce la scrittura di Francesca Lo Bue sa che entrambe le stesure sono il frutto di una ispirazione contigua in cui una lingua va incontro all'altra e dove è soprattutto il piano fonico a dettare la scelta delle parole, ed è proprio questo il tratto distintivo del suo fare poesia ( aspetto sul quale si tornerà più avanti). Le poesie sono precedute da una folgorante introduzione intitolata Pizia ovvero della metafora poetica: vero e proprio accessus all'intero corpus poetico: l'autrice, come novella Pizia - la sacerdotessa di Apollo - ci trasmette un messaggio oracolare di difficile decifrazione: “La poesia, con gli enigmi che ci pone, con le sue metafore, con l'espressione pura di parole-visioni, folgorazioni e sinestesie ci apre all'oscurità del mistero”.p. 9. Tra le 'soglie' del testo vengono riportati in epigrafe i bellissimi versi di Commiato di Giuseppe Ungaretti a Ettore Serra:“Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/ scavata è nella mia vita/come un abisso” (cuando encuentro/en mi silencio/una palabra/excavada está en mi vida/como un abismo). Può sorprendere la presenza di Ungaretti ( un poeta in fondo lontano dall'orizzonte intertestuale di Francesca) di cui, però viene accolta e fatta propria l'accezione di miracolosa scoperta che comporta la ricerca della parola poetica. Non va dimenticato che il titolo di una delle sue prime raccolte è proprio L'emozione nella parola (por la palabra, la emociòn), Roma, 2010.
Dopo queste precisazioni il lettore è preparato a non aspettarsi da questo nuovo libro di Francesca Lo Bue una poesia accogliente, di facile comprensione; il linguaggio dei Canti del pilota è visionario, spesso oscuro, teso ad esplorare una condizione esistenziale sepolta in un passato lontano e talvolta traumatico che solo la parola poetica è in grado di riportare alla superficie. La nozione di 'scarto' mediante la quale dai poeti simbolisti in poi si definisce la lingua poetica rispetto alla lingua comune è forse quella che meglio si adegua alla sua poesia ed è visibile fin dalla scelta del titolo dove la parola 'pilota' non sta ad indicare come vorrebbe la lingua standard la persona posta alla guida di un veicolo ( comunemente ci si riferisce al pilota di aereo, al pilota automobilistico), quanto colui che anticamente dirigeva il corso di una nave o di un'imbarcazione, come si ricava dall'illustrazione posta in copertina che riproduce una raffinata pittura murale di provenienza egizia. 'Pilota' è un termine dal sapore arcaico che peraltro, nella forma maschile, compare, ad esempio, nei Sepolcri di Ugo Foscolo: “Felice te, che il regno ampio de' venti/ Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!/ e se il piloto ti drizzò l'antenna/oltre l'isole Egée...” (vv.213-215). Nel nostro caso il 'pilota' è l'alter ego dell'io lirico al quale presta la voce guidandolo attraverso un viaggio simbolico nelle acque lontane e misteriose della memoria ( “Il pilota della lontananza,/il pilota del Sur, viene con ali vittoriose nel capo”/ El pilota desde lejos venía/ con alas victoriosas en la cabeza” si legge nella poesia Andromeda, pp.84-85).
Ci sembra indispensabile, per un inquadramento critico più preciso della sua poesia, dedicare uno spazio alla biografia di Francesca Lo Bue. La futura poetessa è arrivata, poco dopo la laurea, nel 1979 a Roma dall'Argentina, in particolare da Mendoza ( dove la sua famiglia emigrò nei primi anni Cinquanta dalla Sicilia quando era bambina ). L'Argentina è stata per tutta l' infanzia e la giovinezza la sua patria: qui è cresciuta, qui ha appreso la nuova lingua, qui ha studiato laureandosi brillantemente in Lingua e letteratura spagnola presso l'Università di Cuyo, fino a quando, per un imprevedibile gioco del destino, è ritornata in Italia con una borsa di studio del Ministero degli affari esteri. Quello che doveva essere un periodo limitato ai due anni di durata della borsa ( durante i quali ha frequentato i corsi presso l'Università “La Sapienza” per poi specializzarsi in Filologia Romanza sotto la guida di Aurelio Roncaglia) ha finito per diventare un tempo indeterminato della sua vita e Roma- dove nel frattempo si era stabilita- una seconda patria. Questo distacco ha richiesto molti anni per essere elaborato dentro di lei. Nella poesia Fato / Hado p.76-77 leggiamo:” Quel che ti danno prendilo,/il destino è una mano esperta (Lo que te dan, tòmalo/el destino es una mano experta), un congedo sapienziale che dice molto di quanto le è accaduto.
Dovrebbe ormai essere chiara la ragione per cui Francesca Lo Bue ha scelto di scrivere le sue poesie nelle due lingue che le appartengono: lo spagnolo e l'italiano, entrambe due lingue necessarie, a nessuna delle quali può rinunciare, pena l'afasia che, per ammissione della stessa, l'ha colpita per anni, fino alla scoperta 'salvifica' della parola poetica: grazie alla poesia è iniziata la sua rinascita e, in seguito, anche il suo esordio letterario, avvenuto piuttosto tardi, nel 2009, ma che da allora è stato continuo e che ci auguriamo proseguirà nei prossimi anni.
I Canti del pilota si presentano come un libro unitario, non come una semplice raccolta di testi; i componimenti sono infatti legati da uno stretto rapporto di coesione e di coerenza dove si possono facilmente rintracciare affinità di ispirazione e di significato. Al centro vi è il tema del viaggio mediante il quale la poetessa ricostruisce le proprie radici, definendo anche la propria identità per tanto tempo spezzata.
Tra i testi che sviluppano questo motivo di fondo, ricordiamo Exodo/ Esodo:“En éxodo huì/hacia paredes bruñidas de gotas celestes,/lumbre remota de lágrimas” ( “In esodo partii,/verso pareti gemmate di gocce celesti,/lucore remoto di lagrime”), pp.18-19, a cui possiamo aggiungere La casa avita /El hogar pp,58-59 entrambe incentrate sul motivo dell'esilio: “Abrir la casa del nacimiento,/sus murallas esperan,/Están los rostros de los mayores,/doliente humanidad/que clama continuidad, voz, destino” - Aprire la dimora della nascita/con le sue mura che attendono./ Ci sono le tracce dei maggiori,/la dolente umanità/ che chiama continuità, voce, destino”. Molto significativi risultano alcuni componimenti che traggono origine e forza dal mito, come Ifigenia, pp.14-15, figlia di Agamennone destinata ad essere l'innocente vittima sacrificale per placare la collera di Artemide, ma all'ultimo salvata dalla dea stessa, Ulisse, pp.42-43 l'eroe del nostos, del desiderio sofferto di ritornare a Itaca, fino al bellissimo racconto lirico sviluppato in Andromeda, pp.84-85, disseminato di scoperti elementi autobiografici. Il mito racconta che la figlia del re dell'Etiopia fu condannata a restare legata a una roccia come vittima espiatoria di un insulto divino fino alla sua liberazione per mano dell'eroe Perseo:” legata alla roccia luminiscente, “sognava. Sognava un promontorio lontano. Sognava l'orizzonte della sua patria sanguigna”- “atada a una roca luminiscente. Soñaba un promontorio lejano. Soñava el horizonte de su patria” . Centrale è anche il tema della ricerca della parola poetica che affiora nella poesia L'acqua/El agua, posta significativamente nelle pagine iniziali (10-11) e ancora nel sorprendente componimento Il gioco della campana / Rayuela, pp.74-75 : “Cerco l'innocenza delle parole,/gioiosa calligrafia dei gessi bianchi /Quando scendevano uguali a sé stesse,/uguali a me /alle mie risa e ai miei timori/Quando scivolavano succose come tenere pesche” -Busco busco la inocencia de las palabras/risueña caligrafía de tiza blanca...” dove l'autrice, ripensando a quel gioco infantile, ritrova come per incanto, la fluidità e la felicità di scrittura a lungo desiderate.
La navigazione che il 'pilota' ha intrapreso nella regione del lontano “Sur” in Egitto si conclude nelle calme acque dei canali veneziani. Alla città lagunare Francesca Lo Bue dedica, con il titolo Venecia/Venezia (pp.120-121) una delle poesie più paradigmatiche della sua ispirazione che vogliamo esaminare nel dettaglio nella versione in lingua italiana. La poesia è costituita da 22 versi liberi, con alternanza di metri brevi e lunghi, che trascinano il lettore in un “caleidoscopio infinito” grazie al potere immaginifico delle parole. Venezia viene evocata mediante una serie di metafore di primo grado, come ad esempio al v.2 “opalescenza di stelle e riverbero di plenilunio”; v.14 “Venezia, libro di viaggi”, v.17 “Venezia, sentiero di cielo”; v.18 “tepore di lucignolo”; v.19 “ ombra di fuoco perenne”, che si intrecciano al tessuto metaforico dell’intero enunciato poetico in cui le immagini-visioni emergono da un fondo magmatico ( v.5 Il naviglio che scende nel labirinto del sangue; v.8 C’è Medea che chiama tra muraglie di piombo ) creando un forte contrasto con la luminosità (“opalescenza di stelle, v.2; C’è una lagrima di brina, v.7; “mentre lo straniero mangia acini d’argento”, v.9, “negli occhi d’ambra della sera “v.10) che pervade il testo.
Al centro della poesia, come dell’intera raccolta, vi è l’idea del viaggio, rappresentato visivamente dal “naviglio”, v.5 (laddove la stesura in spagnolo predilige il termine ‘bajel’) e successivamente dalla ‘gondola’, evocata dall’elegante immagine del ‘cigno’, v.15: “fra i tuoi ponti il cigno/nel ventaglio delle onde” (la parola ‘cigno’ ricorre anche nella poesia Astronauta (p.39) in un contesto totalmente diverso): a Venezia, città di marmo, l’io lirico (il pilota) approda dopo un lungo viaggio (“Spume antiche mi portano alle tue soglie”, v.11) per prendere coscienza della propria pena: “nelle tue maschere,/la pena ancestrale del mio viso”, vv.21-22. Forti per intensità i richiami al mito greco degli Argonauti, al loro viaggio nella Colchide e al tragico amore di Medea (evocata, come ricordato sopra al v.8) per Giasone.
La struttura sintattica del componimento è prevalentemente nominale, le forme verbali sono piuttosto ridotte e ad esse è affidata la funzione narrativa appena percettibile nel testo. Quello che colpisce in questa poesia, e che, a mio parere, costituisce la cifra stilistica più rappresentativa della produzione di Francesca Lo Bue è l’uso di un lessico estremamente colto e ricercato attraverso il quale la poetessa ci restituisce, come impronte (“parole-orme”), le tracce del proprio vissuto. Il tutto è tenuto insieme con grande perizia dal tessuto fonico delle parole dove allitterazioni, ripetizioni e assonanze conferiscono musicalità a una poesia certamente poco melodica.
Attraverso i fenomeni della ripetizione si creano dei grappoli di fonemi che si propagano di verso in verso come rintocchi di passi e fanno pensare al viaggiatore che si inoltra con cautela nel dedalo delle calli veneziane ( e non sarà casuale che la parola ‘labirinto’ vi ricorra due volte, al v.5: “labirinto del sangue” e al v.18 “fra labirinti profumati di luce”). Ad esempio, nei versi iniziali troviamo la ripetizione della ‘p’( Pallida, opalescenza, plenilunio) a cui segue la l’allitterazione della ‘l’ (labirinto, lontana, lagrima), quindi del fonema ‘m’ (Medea, muraglie, mentre, mangia), seguito dalla ‘s’ (Spume, soglie, incenso, mosaici) per concludersi con la ripetizione della ‘v’ ( incavi, Venezia, ventaglio, Venezia) e di nuovo della ‘p ’nella perfetta allitterazione (pena purpurea, v.20).
Alcune assonanze alla fine dei vv.3-4 Infinito/destino; vv.5-6 sangue acque; vv.9-12 argento/incenso; 13-14 incantati/viaggi compensano l’assenza di rima del componimento. Nella quarta di copertina è collocata una poesia che non troviamo all’interno della raccolta intitolata Capitàno/Capitán: questa poesia ci rammenta in un estremo explicit lo spirito con cui Francesca Lo Bue ha affrontato la composizione di questo volume: dare voce al mistero sepolto dentro le cose e nell'inconscio di ogni individuo. Si leggano questi versi: “Dove vai capitano azzurro?... al mio cuore che ha un miraggio d’alberi? Dove vai? Verso l’orizzonte che sanguina?... E’ nata bellezza ed è visione di terrore e grazia/ed è canzone antica”.
Ecco, la Venezia che ritroviamo nella poesia omonima è una città apparentemente ferma, immobile: nelle sue architetture, nei suoi ponti, nei suoi canali attraversati dal leggero movimento dei remi di una gondola sono depositati millenni di storia e di memoria che soltanto la poesia, come Pizia, la sacerdotessa di Apollo, ci aiuta a decifrare.
Roma, 31 marzo 2023
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Gabriella Milan
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