sabato 11 febbraio 2012

segnalazioni volumi - Casulli

Paola Casulli, Phitekoussai. Canti di un’Isola, Kairós Edizioni, Napoli 2011  
   Sono una serie di istantanee, come le foto con le quali s’alternano nelle pagine del volumetto, queste poesie di Paola Casulli dedicate alla sua isola, Ischia. Un catalogo di raffinate impressioni suscitate dai luoghi lungo i quali i versi ci accompagnano nominandoli, e così facendoli essere sulla carta. Casulli, per adoperare un’espressione di Vittorio Sereni, canta dunque la sua “patria poetica”, vero locus amœnus per la poetessa, che a esso torna costantemente e che dispiega la propria geo-poetica. Ma essendo qui protagonista il mare, il Tirreno, il Mediterraneo, possiamo senza meno adottare l’espressione che ci suggerirebbe Predrag Matvejević: talassopoetica. Sempre come direbbe lo studioso ex-jugoslavo, più che di paesaggio, per questi versi dovremmo parlare di maraggio o talassaggio.
  Un primo esempio in un testo intitolato, con un calembour, Mare Amore (p. 20)

Il mare coricato
parla del suo corpo a chi torna
con valigie d’azzurro.
Il mare scavalcato
Il mare sollevato

Il mare
sulle mie ginocchia
a me che guardo
da terrazze profumate di zenzero
cortili nudi e senza pudore

   Abbiamo riprodotto i versi con la loro giustificazione centrale originaria, che è quella seguita in tutta la raccolta, perché essa, con l’alternanza di versi brevi e lunghi, ci dà ragione anche del moto ondoso. Qui, senza dubbio, la terra è alle spalle – seppure la breve estensione d’un’isola – e lo sguardo corre sulla distesa d’acqua, pronto a salpare. E Salpando è il titolo proprio del testo successivo. Ma ancora un altro esempio, nel quale entroterra e distesa marina giocano dialetticamente tra di loro: le “voci campestri” negate dai “costretti silenzi” del Mediterraneo – e Mediterraneo è il titolo (p. 23):

Seduce i viaggiatori toccati dal miraggio
delle molte albe stese nel biancore.
Il blu oltremare appare esile
su masserie meditabonde,

voci campestri e oratori di passi
non lo riguardano.

Così è il Mediterraneo
così i costretti silenzi

di certi desideri, ulivi di vivo palpito
respirano.

   Laddove il palpito e il respiro delle piante (qui di nuovo sulla terra, ma una terra dai frutti così ‘mediterranei’) ci ricorda quegli “ulivi incielati” dei quali, nei suoi romanzi, sorta di poems en prose, scriveva all’altro capo dello stesso mare, in Liguria, Francesco Biamonti, cantore del mare e delle terre di mare. Più direttamente viene invece richiamato un altro scrittore di cose di mare, l’autore, tanto per dire, de Il vecchio e il mare e di Isole nella corrente: “e mi sentivo uno spiritello di Hemingway / quaggiù, dentro me, fendere il legno delle assi / scricchiolanti di versi e di poesia” (p. 42), scrive Paola.
   Sul paesaggio marino alita poi sempre un salmastro Vento del Sud  che, montalianamente, “Scava, svuota, prosciuga” (p. 31); “Nei venti di bonaccia si riposa / disincagliando astri dal volo / libero dei gabbiani” (p. 46: il riferimento è a Il faro di Punta Imperatore). E ancora, di nuovo in questa dialettica terra/mare:  “Rapido! Rapido! Vento /  cuci la roccia al mare in unico cielo!” (p. 62). Se il mare evoca luce e vento, la notte ridesta però “strategie di luci”, “coriandoli di luce” (pp. 52-53) lungo la costa. E qui, come in un controcampo, la prospettiva è rovesciata: non più terra-mare, ma mare-terra. Comunque con un forte senso della primordialità della natura che ha echi pavesiani (e se il poeta torinese sembra più il cantore di terre e città dell’interno, egli è però anche l’autore della folgorante I mari del Sud). E scrive Paola: “Così pure il ragazzo sguscia / al pari di una cavalletta blu / dietro la barca scrostata di immenso mare” (p. 40). E Pavese è senza dubbio evocato più esplicitamente quando perentoriamente si scrive: “Era ieri la bella estate” (p. 48). E come Pavese, anche se in modo diverso, la poetessa gioca con l’impasto materico e fonetico stesso delle parole che adopera su queste “pagine mare” (p. 39). Come onde sembrano giocare qui le parole: “ruzzola ruzzola in cumuli tiepidi / di acquazzoni” (p. 44). E i fonemi si mescolano tra di loro come, nelle onde, acqua con acqua. Il gioco delle onde, mimato dalla disposizione dei versi, viene qui ripreso, molecolarmente, dall’interno stesso della massa d’acqua. Ma la scrittura agisce anche sull’universo dei colori, nell’esasperata e raffinata loro denominazione, quasi a suscitare coloristicamente lo stesso paesaggio meridionale: “roccia… rosso-granata” (p. 16), “nero-prugna nei vigneti” (p. 32), “verde intonaco dell’orizzonte” (p. 62).
   Se poi l’invocazione al proprio mare ha qualcosa di mitologico (“Sveglia il tuo coraggio / distanzia la mia notte / Mediterraneo! // che ti ricomponi / che non cambi linguaggio // pur morendo, resti / immortale… ” ; p. 67), anche nel senso di ciclicità che si avverte nelle eterne vicende marine (ciclicità trasmutante che trapela anche dall’evocazione dei quattro elementi naturali e mitici acqua aria terra e fuoco che percorre il volume), ebbene, questa tensione mitica si fa, anche in questo caso, scrittura. E già nel poemetto d’apertura, i continui incisi segnalati graficamente dai due trattini che li racchiudono e isolati dal verso, ci danno come il senso dell’irruzione del coro delle antiche tragedie greche: “- E andremo -”, “Tenace stringici -”, “- Soccorrici -”, “Seducete -”, “- Salvaci -” (pp. 15-17). E tutto il componimento, Forio, ha un andamento solenne con gli incisi che per lo più sono richieste d’aiuto. Infatti, pur tutta la tensione del ritorno al luogo d’origine, alla propria patria poetica, non può impedire che anche la “luce promessa” (p. 35) cui pure si aspira illumini in fondo “uno spazio illusorio” (p. 49) qual è quello d’un’isola, un’isola come è, nel mare del tempo, la nostra vita. Un’illusione.
   Il mito, con il suo rito, instaura una ripetitività circolare, un tempo particolare, un kairós che sembra, con il suo cerchio incantato, dare eternità alla nostra parabola e al luogo che la contiene, al di fuori della tirannia di kronos. Così, Paola Casulli dà anche un titolo greco – l’antico nome di Ischia – ai suoi in-canti di un’isola.
   Che poi i Greci credessero davvero ai loro miti, come si chiede ad esempio un Paul Veyne, è un’altra questione. La poesia, parente del mito, può pur dar fuoco alle “zattere del tempo” (p. 68), e popolare di rose e fauni le “righe dei vigneti”.
Enzo Rega






1 Commenti:

Alle 14 febbraio 2012 alle ore 00:57 , Blogger Mya ha detto...

Un ringraziamento sentito al professor Spagnuolo per avermi ospitata nel suo nuovo blog. Parole di ammirazione e gratitudine al professor Rega per aver saputo descrivere con sensibilità rara ed attenta la mia poesia.
Due persone a me preziose e care. Due Poeti e critici di indubbio valore letterario ed umano.
Paola

 

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