Segnalazioni volumi = Pezzato
"LA FINE DEL NOVECENTO È L’INIZIO DI CHE COSA?"
(Per Lorenzo Pezzato)
Mi piace pensare al «Sacro Mediatico Impero» del villaggio della comunicazione globale come ad un nuovo Moloch dalle gambe di argilla che può essere afflosciato dalla puntura di spillo di una poesia.
Ma è una illusione.
In realtà, la poesia sopravvive a se stessa come un parassita sul corpo sociale delle attività produttive. È una entità parassitaria. Nelle condizioni(*) della odierna economia spirituale (e monetaria), il discorso poetico non può che perorare la propria radicale estraneità al Moloch.
Il conformismo, invece, è altamente produttivo: perché il libero mercato ha bisogno di un pubblico assuefatto e di una cultura massmediatizzata. È paradossale pensarlo ma non resta che ricrederci, abbiamo sbagliato: è produttivo soltanto ciò che conformistico, ciò che si adegua supinamente al conformismo di un gusto irrimediabilmente massmediatizzato.
Lorenzo Pezzato impiega l’arma dell’ironia, fa le capriole, assume pose attoriali, celebra cerimonie, prende possesso del palcoscenico come d’un artificio, d’una messinscena. Il divertimento del poeta desublimato corrisponde alla irriverenza con cui tratta il proprio materiale poetico; l’entrata in gioco (ovvero, l’entrata in scena) è anche la presa di possesso d’un materiale poetico povero, automatizzato, sclerotizzato, socialdemocraticamente complicato da rime, contro rime e anti rime, assonanze interne (ed esterne) dove è possibile perfino registrare il «gioco» tra presenza (dell’orecchio) e assenza (dell’occhio), squisita mistificazione del poeta di corte.
Ne esce l’istantanea composita di un «mondo in vetrina», un mondo che è la rappresentazione dell’eterna commedia italiana di palazzeschiana memoria, il ribaltamento dei piani e dei valori in dis-valori che il villaggio globale ha riscritto e risistemato, la giaculatoria nei confronti del «nuovo»: « Tutti i giorni mi umilio allo specchio / tutti i giorni mi umilio leggendo i versi di ieri / scaduti da ventiquattr’ore», sono gli indizi del lutto che la società del villaggio globale annunzia: gli oggetti scaduti (tra cui anche la poesia di ieri), l’amore di coppia, il sublime (e l’anti sublime) della tragicommedia dell’«io» moderno.
Mentre l’eterna Arcadia italica si esprime «nella lingua della clericatura», nella lingua di uso pragmatico (sempre più periferica e marginale) suonando con il plettro delle viandanze turistiche, la migliore poesia dei giovani dell’ultima generazione sceglie di esprimersi nell’idioma della propria marginalità assoluta, marginalità linguistica e stilistica che è stata scacciata dai circuiti della produzione-consumo (quel coacervo di superconformismo di una sottoclericatura destinata al servizio di corte): la marginalità della merce riciclata e riutilizzata dell’epoca della stagnazione stilistica.
Invece la gran parte della odierna poesia oggi in voga (una sorta di sub-derivazione del minimalismo), con tanto di sublime nel sub-jectum, scrive in un super latino della comunità internazionale qual è diventato il gergo poetico in Europa (di cui l’italiano è una sub componente gergale). Ma, è ovvio, qui siamo ancora (e sempre) sul vascello di una poesia leggera, che va a gonfie vele sopra la superficie dei linguaggi neutralizzati del Dopo il Moderno: srotolando questo linguaggio come un tappeto ci si accorge però che ci sono cibi precotti, già confezionati, da esportazione: non c’è profondità, non c’è spessore, non ci sono più limiti. La leggerezza rimbalza sulla superficie, non ne affronta cause ed effetti drammatici, non c’è indagine della superficialità fino a metterne a nudo le profondità. Lampante in questo senso “La parabola dei talenti”:
Scagliano versi con fionde rudimentali
come ciottoli da tavole di legge frantumate
nel passaggio al nuovo millennio,
i contemporanei poeti a corta gittata
stelle filanti
talenti in parabola discendente.
Ci sono i linguaggi del tappeto volante del tutto e subito e del paghi uno e prendi tre, del bianco che più bianco non si può. C’è una libertà sfrenata, una democrazia demagogica: si può andare dappertutto, e con qualsiasi veicolo, verso il rococò, verso la nuova Arcadia, verso la poesia civile, verso un nuovo maledettismo (con tanto di conto in banca dei genitori) e verso lo stile lapidario; una direzione vale l’altra, o meglio, c’è una indirezionalità ubiquitaria che ha fatto a meno della bussola: il nord equivale al sud, la sinistra equivale alla destra, l’alto sta sullo stesso piano del basso. In realtà, non si va in alcun luogo, si finisce sempre nell’ipermarket della superficie, dentro il tegumento dei linguaggi e dei temi neutralizzati. Siamo tutti finiti in quella che io ho recentemente definito poesia da superficie.
Ma nelle opere di un autore come Pezzato è visibile un mutamento radicale della situazione culturale del Dopo il Moderno, la ricerca di un Moderno privo di suffissi post che si ponga come partenza e arrivo di se stesso senza dipendere da, un distacco dai canoni e un arrembaggio alle difese che il discorso poetico ha costruito contro l’invasione di nuovi linguaggi.
Pezzato riparte dallo zero, dal minimo comun denominatore di un linguaggio che ha azzerato le tematiche che la critica dell’economia linguistica degli istituti stilistici maggioritari consegnava agli autori delle giovani generazioni e il suo «io» deve fare i conti con la finta centralità dell’«io», con il travestimento del poetico in koinè pseudo narrativa, con la dismissione dei parametri stilistici del secolo dello sperimentalismo. E la storia narrata dalla successione dei componimenti si conclude in perfetta linea con i tempi, senza assunzione di responsabilità da parte di alcuno, l’ennesima occasione di cambiare sprecata, bruciata dalle fiamme della pressione che il contorno esercita su ognuno di noi, una ferita che non si rimargina e continua a procurare dolore, il simbolo più rappresentativo della generazione che negli anni Dieci dovrebbe esprimere la classe dirigente e intellettuale di questo paese e che invece ancora langue in casa con i genitori, si accontenta della mediocrità alimentando il pantano che la paralizza, nel migliore dei casi produce letteratura ed arte in sintonia con l’appiattimento generale. Esseri umani colmi di potenzialità che si rendono conto della propria condizione, che si rendono conto anche di quanta fatica costerebbe loro –in ogni senso– trasformarsi, essere diversi, perciò scelgono di anestetizzarsi con le abitudini, i viaggi e lo shopping, l’illusione di una vita riempita di oggetti e cose da fare, inchiodata all’infimo privilegio concesso, svuotata di idee e coraggio:
Oggi nevica, che meraviglia
la legna crepita scaldando l’ambiente
persone allegre attorno al tavolo
cucinano o cercano di farlo, la polenta
nel paiolo di rame la fame di cibi
invernali conditi pesantemente,
su un ramo spoglio uno scricciolo
saltella come niente fosse
non è volato al sud rimane
al suo posto anche quando la tempesta
imperversa non molla resiste
non cede alla tentazione di sbattere
le ali e svernare altrove
un altro dove temperato
troppo affollato di uccelli codardi.
Con le parole dell’autore: “Non credo che la poesia contemporanea, in questo preciso momento storico, debba assumersi la responsabilità della ricerca linguistica e formale, ma debba per un attimo ricordarsi che il poeta è uomo e, come tale, inserito in una socialità che, non piacendogli, deve aggredire, non rifuggire cercando riparo nella lirica ad alto contenuto estetico sul petalo di rosa …”
Lorenzo Pezzato è legittimo rappresentante della «poesia degli anni Dieci» scaturente da una generazione cresciuta nella democrazia della stagnazione ma è troppo intelligente per non accorgersi che quella generazione «eclissata» perché economicamente invalida e culturalmente improvvida è anche la generazione della stagnazione stilistica, morale e politica. Si tratta della prima generazione in crisi di identità -in quanto figlia prima del benessere poi dalla crisi economica- che affronta un tempo denso di contraddizioni e di mutamenti repentini, di evoluzione sociale galoppante di cui non riesce a tenere il passo, che stenta a trovare una qualunque direzione e annaspa in un oceano di apatia e indolenza.
La poesia «degli anni Dieci» adotta qui il binario del surrogato della «Comunicazione», un equlibrismo tra lirica e prosa civile, andando a sottrarre alla poesia la maggior parte della sua potenza di astrazione, finendo vicina a diventare una sub componente gergale della «Comunicazione», poesia nutrita con i surrogati e i succhi gastrici della «Comunicazione».
Non c’è dubbio che la «nuova poesia degli anni Dieci» debba trarre linfa e forza dal vuoto che la circonda, dal quasi nulla a disposizione e da quello cerchi la ripartenza, cerchi di distillare il proprio linguaggio, il proprio modo e il proprio messaggio.
E’ d’altronde lo stesso Pezzato che tratteggia una poetica per la poesia a venire, una poesia intelligibile, diretta e scheletrica nella forma ma comunque attenta all'estetica dei suoni e dei ritmi (quasi in antitesi al concetto «classico»), che usa il linguaggio stringato e minimale del XXI° secolo, che propone temi di stretta attualità perché la poesia possa servire a «decifrare» anche il mondo moderno nell'immediatezza della sua rappresentazione, che utilizza l'Io ipertrofico -caratteristica tipica della nostra contemporaneità occidentale- come centro di gravità. Un tratteggiare su tabula rasa che si presenta arrogantemente come abbecedario poetico, come simbolico punto di partenza per la nuova poetica, come si intuisce incontrando i due “esercizi da sussidiario” (con la c e con la s).
Il poeta combatte con le armi convenzionali e tradizionali dentro una forma-interna invece molto «in avanti», come il cavallo «in avanti» che si appoggia sul morso tenendo in tensione le briglie per sottrarsi al loro controllo, scattando perennemente.
Dunque, la «poesia degli anni Dieci», appare impegnata nella costruzione di un discorso poetico fondato sulla interrogazione dell’«inautenticità». E qui sorge un problema: è ancora possibile il discorso poetico fondato sull’«inautenticità»? È ancora possibile porre la questione di: quale poetica? Delle poetiche fondate sulla giustificazione del proposizionalismo come avveniva nel tardo Novecento? Si tratta di scegliere: quale proposizionalismo? Si tratta di scegliere: a) un discorso poetico che si regga sulla semplice giustificazione estetica delle proposizioni, che le incatena le une alle altre secondo la gerarchia stabilita dalla «funzione» poetica? b) o si tratta invece di fondare il discorso poetico non più sul giustificazionismo estetico e proposizionalistico di tipo tardo novecentesco ma sulla interrogazione dell’«inautenticità»?
Pezzato pone all’ordine del giorno la questione dell’«inautenticità»; con ciò traduce e ripianta su nuove basi il concetto di «autenticità», un modo strategico per introdurre «surrettiziamente» la questione di un nuovo statuto e di una nuova leggibilità della poesia non più intesa quale istituzione stilistica.
È oggi ormai chiaro a tutti che in pieno Dopo il Moderno (dopo che la post-modernità ha provocato l’inflazione e la stagnazione dei paradigmi stilistici dominanti), il discorso poetico non ha altra scelta, se vuole sopravvivere, che inoltrarsi verso il «vuoto», l’«ignoto» senza più la sicurezza dei parametri tematici e stilistici consolidati. Il futuro della poesia non dà certezze ma solo problemi aperti che attendono una soluzione.
Sulla poesia grava allora il compito di sollevare una serie nutrita di questioni fissando negli occhi la quotidianità contemporanea, di puntare l’indice e gli specchi per una profonda riflessione collettiva.
Non è un compito da poco.
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*In un articolo del 1976 Franco Fortini, meditava sul «Sacro Capitalistico Impero» e rifletteva sullo scrivere poesia in lingua nazionale e in dialetto, nella lingua della «clericatura» interna e internazionale. Da allora, sono trascorsi trentacinque anni e direi che il fortiniano «Sacro Capitalistico Impero» è diventato il «Sacro Mediatico Impero»; non più Impero del Male né Impero del Bene, siamo entrati in un’età che è effettivamente andata al di là del Bene e del Male, in un territorio direi neutro, in un territorio attraversato dalla «Comunicazione», in un territorio deterritorializzato la cui unica Costituzione è la Comunicazione Globale. Scriveva Fortini:
La vera questione non è quella del rapporto fra i dialetti e la lingua ma fra lingua nazionale e le massime lingue di cultura. In corrispondenza ad un irrigidimento della società in caste (maschera delle classi), il cosiddetto «italiano» o è una sottospecie dell’inglese che serve alla comunicazione dei potenti, dei sapienti, degli eminenti, dei borsisti, degli specialisti, dei registi, ecc. o è esso stesso un dialetto, la lingua d’uso destinata alla comunicazione pragmatica e affettiva. In questo senso i dialetti tradizionalmente intesi ritrovano tutta la loro legittimità: se consideriamo l’Italia una grande Manhattan, nei dialetti tradizionali vi sono linguaggi delle sottoculture, mentre l’italiano della comunicazione corrente (parlata o letteraria) è il linguaggio della sottocultura complessiva peninsulare e, al di sopra, sta l’italiano ufficiale, amministrativo, scientifico o specialistico, che è l’inglese o russo tradotto o traducibile; non a livello linguistico ma a livello morale e culturale. Per questo i dialetti, in quanto superstiti, sono «figura» dell’italiano, che già fin da ora è una lingua superstite. Non corrisponde a nulla di autonomo. Che Volponi scriva in (ottimo) italiano invece che in casigliano è un puro caso geografico. Un testo di Albino Pierro o di Franco Loi è solo una scelta di campo, uno squisito autolimitare (ed esaltare) la comunicazione. L’attitudine (e l’uso) del dialetto, e dei gerghi e – al limite – della lingua privata è l’altra faccia della costituzione di nuovi linguaggi internazionali. Scrivo un verso in italiano e so di scrivere in una lingua morta, in un dialetto agonizzante; scrivo invece queste righe traducibili in qualsiasi congresso con prenotazione alberghiera, presidenza e microfoni, e so di star scrivendo una specie di latino, nella lingua della clericatura. La dolce e infame anarchia del ghetto fa fiore e muffa per entro il Sacro Capitalistico Impero.
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GIORGIO LINGUAGLOSSA
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