Miriam Luigia Binda: GUERRANIMA. Edizioni Elicon. Arezzo. 2013. Pp. 98. € 11
“Spazi misurati per un’anima volta a miraggi per i quali sono stretti perfino
gli orizzonti degli Oceani”
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Pensiero d’amicizia
“Se morisse il pensiero mio di te
il ceppo robusto
lasciato nel sordido camino
sfinirebbe di cenere
ed il vento porterebbe con sé
ogni plauso di calore
ogni petalo dischiuso
guizzante dalla luce.
Amico mio,
la nostra amicizia
passa l'oscurità.
È una fiaccola accesa
nel'indifferenza del mondo!”
Questa poetessa è qui. In questi palpiti di vita, in questi abbrivi di silenzi, in questi sobbalzi interiori, di cui è capace soltanto un cuore generoso e procace, tenero come un passero, ma capace di volare con ali forti e robuste, con ali aquiline per sfiorare cieli tanto ampi quanto i sogni degli umani. È qui, a sfiorare con parole impossibili l’amore. A fare di un’amicizia “una fiaccola accesa/ nell’indifferenza del mondo”. Quanto sentimento, quanti traslati per dire subbugli tanto esplosivi, tanto delicatamente accennati, annuiti! C’è qui, anche, la grandezza della poesia, il desanctisiano equilibrio fra i patemi dell’essere e il corpo dei verbi. Un vero esempio di canto elevato al sentimento più nobile, a quel sentimento che più si avvicina all’azzurro.
Mi piace esordire con questa citazione testuale, perché molto indicativa ad esemplificare il tema centrale, il leit motiv della silloge. Il sentimento, la passione, l’amore; e per amore intendo quello totale, plurale, per l’amicizia, per la natura, per l’uomo, per il mondo, per la pace, per il tutto. Ed è questo sentimento che permea di sé, come una melodia sotterranea, il dipanarsi dei 34 canti di Guerranima. Silloge complessa e articolata che, divisa in due sezioni: Divergenze connesse, Dove vanno le ragazze…, si sviluppa su un ordito versificatorio libero e movimentato, arrivante e suasivo, ma pur sempre mantenuto su un livello fonico-lessicale di alto spessore. Dispiegato su ondulazioni espressive di grande portata poetica. Di grande vocazione metaforica. Di grande compattezza formale. Guerranima. Titolo, suggestivo, di un’attualità feroce e storicamente avvilente: “(…) Crepuscolo: il Mullah suona/ il Rebad del martirio/ tra le case, la stretta porta/ nasconde i fucili di contrabbando./ Sulla strada è un pianto,/ma l’aquilone ha il tuo cuore/ bambino mio/..../ Sapessi ho volato con te/ tra le sacre montagne ad est dell’Indo (…)” (Guerranima).
E questo non è amore? Amore per la pace, per la vita, per la fanciullezza spersa e non vissuta. Io credo che, per discutere della poetica di un autore, occorra, prima di tutto, conoscerne la personalità, i gusti, gli slanci emotivi, le riflessioni morali, gli intendimenti sociali; insomma la persona a tutto tondo. Ed io conosco Miriam Binda. Non tanto per una frequenza fisica – l’ho incontrata solo una volta ad un Premio Letterario, dove abbiamo parlato abbastanza a lungo – quanto per quella virtuale. La conosco per la sua collaborazione, frequente e assidua, al mio blog, con i suoi ripetuti interventi critici; per la pubblicazione di sue poesie, da cui trapelano, più o meno chiaramente, quegli intendimenti che sono alla base della sua poetica; per avere stilato una recensione a due sue pubblicazioni; ma la conosco, soprattutto, per le diverse e-mail che ci siamo scambiati su molteplici argomenti riguardanti la vita, la società, gli accadimenti, la natura, la scuola, il mondo dei giovani, l’arte, la pedagogia, la filosofia (lei filosofo), la letteratura, e i tanti perché dell’esserci e del caso del nostro esistere. Conosco il suo impegno, la sua disponibilità a discussioni di ampio respiro culturale, la sua passione per musei e conferenze; conosco i suoi principi fondanti, i suoi solidi intendimenti morali. Ma quello che mi ha conquistato della sua personalità è la visione che nutre della poesia: espressione a tutto tondo; il suo mondo è affascinante per cifra stilistica, per eccessi di passione, per voli oltre i limiti, per invenzioni di spazi tutti suoi, dove possa amare, sognare, arricchirsi per donare. Sì!, per donare il suo patrimonio interiore al canto; lei è capace di trarre da un fremito di vita un input creativo di grande impatto emozionale; lei è capace di abbandonare l’anima in fremiti di fronde, in asoli di fiume, in sangue di maree per farla rincasare arricchita di suoni colorati, di parvenze melodiose: “(…) Voglio tenerti con me/ sangue di maree/ in rapsodie di lave/ tra i fili delle erbe/ la corrente è cenere/ nell’aroma dell’acqua/ così blu// ritorno… a vivere/ in questo mare” (Sangue di maree); “(…) Ancora un po’, resto a guardarti/così bella, nei flutti delle nuvole,/ primavera, sorella delle rose,/ la tenerezza delle viole,/ compassionevoli,/ abbassano la testa/ al sorriso del sole (…)” (A casa). E tutto è esplosivo; tutto è impossibilmente possibile; tutto è profumo di gentilezza, romanza di colori, canto di cospirazioni paniche. Qui la natura è confidente, prende per mano la poetessa e la porta con sé a gironzolare fra i suoi misteri. Ed è con quei misteri, fattisi abbrivi di una storia, che Miriam Binda dà corpo alle sue sensazioni, alle sue deflagranti commozioni. E nella sua poesia c’è tutto questo. La sua persona, il suo mondo, la sua generosità; c’è la vita, totale, piena, con tutte le sue problematiche esistenziali, umane, con tutto il senso della precarietà, del consumarsi frettoloso e fugace; ma, soprattutto, ciò che della vita può tradursi in Bello, in arte, ciò che può essere musicato in parola; c’è, insomma, tutta la curiosità e tutta la vitalità di un essere che la vuole vivere, questa vita, e la vuole ri/vivere, anche, nelle sue minuzie, ex abundantia cordis. La vuole capire, sentire sua, e magari farsi anche dominare da tutti i suoi impareggiabili momenti di metaforica allusione, di infinita bellezza, di compensazione al nostro essere. Mi scrive, ad esempio, in una delle ultime e-mail, che le tragedie che la affliggono maggiormente sono quelle che colpiscono i più deboli, i bambini; ma alla tristezza delle calamità naturali, o belliche, sa alternare, con una sconcertante duttilità, un abbandono quasi mistico ai quadri paesistici del suo ambiente; e passa, con estrema facilità, da sensazioni di abbandono, a interessi per le tecnologie più disparate, in un confronto con usi passati, ma non dimenticati: “Alcuni anni fa si doveva tirare fuori il disco e metterlo sulla piastra, con le puntine che ogni tanto saltavano e si rompevano, era un rituale, per quanto mi riguarda, domenicale, che coinvolgeva anche mio padre che amava ascoltare musica. Fa bene, anche, la musica, e la poesia è musica delle parole”. E nasce in lei un certo senso di tristezza da un raffronto fra l’antico e il presente; una certa riflessione di carattere morale ed ecologico da una rievocazione di tempi in cui la terra era a capo della condizione umana; in cui la gente era più vicina, più disposta e disponibile ad un incontro di fratellanza e di comprensione; e nasce, nasce soprattutto, una riflessione sociale fra l’opulenza dell’Occidente e la disperazione del Terzo Mondo: “Nel tempo antico i nostri padri/ nella semplice conoscenza della zolla/ raschiavano la terra col badile/ traccio di vite attorno al pergolato/ non aveva l’odore di discarica/ con un alito malato./ I veri padri/ arguivano la conoscenza,/ anche i Maestri dicevano/ lo studio cura l’alimentazione!/ Questo tempo presente,/ ti ride addosso non vuole essere curato// Quanti mondi ci sono al mondo?/ Uno, due, e tre/ Il terzo è il più sfortunato./ Non ha pane, non ha acqua,/ muore in un angolo dimenticato (…)” (Uno, due, e terzo mondo). Sono molteplici gli interessi che caratterizzano la sua personalità. E la plurivocità del suo essere donna, giovane e matura, impegnata e vivace, curiosa e votata ad ogni manifestazione artistica, la fa brillare in questi spazi di luci affievolite, di luci che pretenderebbero di accecarti, ma che vivono solo di riflessi condizionati. Quindi una persona complessa, umanamente e intellettivamente geniale, pur nella sua semplicità; una persona che ti sa affascinare con guizzi improvvisi, con azzardi verbali, con impennate creative. Intensa e nuova la sua produzione letteraria; interessante e contagiante; una ricerca continua di nessi e accostamenti sintagmatici, che vanno oltre la sintassi, oltre la grammatica di una comune scrittura; che si slargano a riflessioni ed emozioni personali sui fatti e le questioni; sulle meditazioni della vita e dell’oltre, per ricavarne il cuore, l’essenza, con stupore e curiosità. E la sua poesia si fa oggettivazione di stati d’animo; prolungamento del dato verso orizzonti di levatura ultra/umana. Sboccia dalle acque cristalline dei ruscelli, dalle selve decadenti degli autunni, dagli aliti innevati dei colli, dalle albe rigeneranti, dalle sere terminali, o dalle più simboliche figure mitologiche, per decollare verso cieli che sanno convertire in gaudio le lacrime: “(…) Ma tu sarai custode del tardo autunno/ lo scudo d’oro, tra le tue braccia/ sui rami del melograno/ speranza/.…/ mentre il tuo passo arriva/ come un ghepardo” (A Diana); “(…) Nell’alito nero della pioggia/ l’ora più bella/ coglie la speranza/ delle donne/ anche se lasciate sole,/ a quel telaio/.…/ tessono il vero amore” (A Circe). E il mito non è mai sfoggio di cultura, ma contestualizzazione dell’umano vivere. È là che attinge la sua pagina: dalla società, dai mali del mondo, dalle sottrazioni umane, dalle ingiustizie terrene, sì!, da tutto questo; ma anche, e soprattutto, dal taedium vitae, dalla coscienza di esistere in spazi misurati per un’anima volta a miraggi per i quali sono stretti perfino gli orizzonti degli Oceani. La sua poesia scava, va a fondo della vicenda esistenziale; e le parole, con azzardi iperbolici sconcertanti, aiutano la sua avventura ora quieta, ora felice, ora inquieta, come ogni vicissitudine terrena. La sua poesia è amore, amore per la vita, per l’arte, amore per l’amore, per tutto ciò che sia degno della sua parola. Una parola mai ovvia, mai scontata; un verbo frutto di ricerca innovativa, di fughe e ritorni. In lei perfino il presente può farsi memoria, può condirsi di quegli ingredienti emotivi che sono il sale della poesia. È tutta qui la differenza fra il reale e l’immagine. Il reale è quello che osserviamo nella sua materialità. Che può suscitare o non può suscitare emozioni. L’immagine è il dato sedimentato; quello rivissuto con input emotivi che lo rendono sospiro, afflato, fiore profumato, disposto a tradursi in versi che lo sappiano rivestire. E la parola c’è tutta; è presente nella sua pluralità; è lì disponibile ad abbracciare un’anima carica d’immagini, già di per sé poesia. Anche il memoriale ha voce in questa vicenda. E contribuisce non poco a dare rilevanza all’aspetto lirico, al pensiero che torna a farsi vivo. Assume un ruolo di alcòva, di riposo rigenerante, di rifugio riposante, anche se una venatura di malinconia attraversa il verso, portando con sé l’idea del tempus fugit, dell’inconsistenza del presente. È là che ci si avvicina di più al cuore del canto; con quelle memorie profumate di fiori d’arancio e malto orzo, dove l’odore di bucato nell’indaco dell’aria parla del Sud. Ed è infinitamente dolce ripescare immagini care; ridare consistenza al passato, riaffiorato dal nulla a tradire l’oblio: “(…) Ritorno bambina/ tra le zolle delle madri/ ritorno, dove riposa il cuore/ e si perde la memoria/ tra le radici che l’inverno restituisce alla terra/ come miele all’ape,/ ritorno// sul tarassaco indorato, dimenticato/ nel selvatico campo” (Il vento mi porta inutili memorie). Ma c’è un volo, anche; un volo che tradisce il quotidiano; un volo oltre il muro, oltre la siepe; verso qualcosa d’irreale che si fa realtà volitiva da cui solo una vertigine può riportarci a terra: “(…) - Mi risveglia una vertigine/ che mi attrae a questa terra,/ forse tu non vedi un volo,/ non credi possa vivere/ oltre quel muro” (Oltre il muro). Leggere questi versi significa farsi poeti; significa sublimarci in mondi eterei dove s’incontrano solo anime “pulite”, intente a cospirare per far rilucere il Bello. Mi ripeto spesso per la mia poesia: “L’amore, il sogno, e il reale sono degni di farsi vita solo se grondano gocce di cuore; soltanto se, seminati in giardini terreni, fioriscono in azzurri sconfinati, dove l’uomo si fa grande agguantando la coda dell’eterno”. E di cuore ce n’è da vendere nella poetica di Miriam Binda. Tutto è filtrato da un sentire estremamente elevato; perfino le cose più meschine, metabolizzate dal suo animo, si rendono possibilmente riparabili. Possibilmente riproponibili all’agenda del divenire umano. Perché c’è la speranza; c’è un credo; c’è un amor vitae forte e propositivo. Un sentimento della sua sacralità che commuove e ci rende partecipi, ghiotti del suo sentire; del suo comunicare. Comunicare reso ancora più convincente dall’uso oculato e sensibile degli innesti ritmici; da una versificazione sciolta, elegante, tessuta su un ordito mutevole che accompagna le ondulazioni delle vicende sentimentali con grande effetto visivo. Ed è la musicalità, l’armonia che proviene dagli intrecci, a dare compattezza e organicità a questo “poema”. Senz’altro vi contribuisce non poco assieme al filone significante del testo. E quando fra le varie misure, più brevi o più ampie, si innesta il potere sonoro dell’endecasillabo, spicca una vera cascata di musica, una romanza lirica, un intermezzo pucciniano, a far brillare, come punto luce, il cuore del canto. E questo rientra nella tecnica della Nostra fra gli altri tanti accorgimenti stilistici: “(…) ti dico, sei stato innamorato/ della filosofia di di Jaspers/ nel sessantotto lanciava la sfida/ alla follia, pareva fosse amore (…)” (Tic Tac). I tre versi antecedenti sembrano sacrificare la loro struttura a beneficio della melodica distensione dell’endecasillabo finale. E vi si arriva gradatamente, dopo l’apporto introduttivo del decasillabo antecedente; “Se morisse il pensiero mio di te/ il ceppo robusto/ lasciato nel sordido camino (…)” (Pensiero d’amicizia). Mentre, in questo caso, è l’endecasillabo iniziale a dare rilevanza accentuativa al tema centrale della pièce. E lo fa richiamandoci, col suo effetto sonoramente attrattivo, all’aspetto della potenzialità del sentire. Assonanze, consonanze, rime interne, sinestesie, metonimie, allitterazioni, iperboli, usate con dovuta sensibilità, sono l’anima del melodico succedersi del dettato poetico; sono note accordate che danno empatia al lirismo che si snocciola spontaneo nel poiein; nelle sue varie occasioni ispirative: il terzo mondo, l’unità d’Italia (150° anniversario), i ricordi dell’infanzia, la moda, spunti mitologici, ricordi di amicizie, temi sociali, ritorni amorosi. Naturalmente tutto visto e considerato con la spiccata sensibilità dell’artista, che al fine emerge come legame connettivo. E la Nostra fa della poesia un monito per vivere, perché crede, anima e corpo, nei suoi messaggi; le dà tutta se stessa, ogni angolo del suo essere; sa che è l’unica cosa terrena a non tradirla; può solo tramandare ai posteri la sua voce calda e positiva, umile e schietta, solida e verace in un’età di disvalori; in un’età poco propensa a slanci di cuore. Ad onirici naufragi oltre gli orizzonti. E il cerchio si chiude con inni all’amore. Con il cuore in subbuglio verso mete che appaghino un sogno. Che appaghino un canto, un ricordo di un bacio; un ricordo vicino, lontano; un ricordo che torna come voglia di vita, come fame di luce:
“Te ne vai,
con l’ultimo bacio.
Nella neve è un raggio di sole.
Nella neve inseguo le tue orme
come un lupo
che ha fame di luce.”
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NAZARIO PARDINI
28/05/2013
Un contributo interessante alla poesia. Complimenti ciao Simo
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