SEGNALAZIONEN VOLUMI = ANTONIO SPAGNUOLO
Antonio Spagnuolo: “Ultimo tocco”, postfazione di Mauro Ferrari, Puntoacapo, Pasturana (AL) 2015 – pagg. 78 - € 12,00
“Mitridatizzare la morte, l’assenza”
In un’intervista sulla sua poesia osservata complessivamente, con particolare attenzione all’ultima produzione, Ungaretti riconosce malinconicamente che, col trascorrere degli anni, viene certamente scemando “la freschezza, l’illusione della gioventù”, ma che, in compenso ci sia una risorsa nuova a cui attingere, costituita da “una somma tale di esperienza che, se si arriva […] a trovare la parola necessaria ad esprimerla […], sia la poesia più alta da lasciare”.
Io non so se Spagnuolo, su questo transito dall’illusione all’esperienza complessiva della condizione umana, vista attraverso la specola della perdita che si viene accumulando nel tempo come ricchezza implementata di sottrazioni e di negazioni, abbia mai riflettuto in termini di analisi, ma so che nell’ultima sua produzione poetica, come già segnalavo in nota a margine delle plaquette fin qua da lui pubblicate dalla morte dell’adorata compagna della sua vita, c’è stato uno stacco netto.
Sul piano tematico, tutto si è raccolto e avvolto attorno a un nucleo duro, il dolore e l’assenza, mentre precedentemente le contattazioni del reale avvenivano in maniera più diramata e su provocazioni anche di quelle che Montale chiama le “occasioni”. Egualmente sul piano linguistico e stilistico si registra un’andata verso il rassodamento. L’incontro sia col parlato quotidiano e con la confidenzialità, a svantaggio del ricorso a lemmi propri di registri scientifici, medici, psicoanalitici, sia con una sintassi più tenace nel suo complesso, sia con un’impostazione della composizione che rinvia, magari inconsapevolmente, e anche se per erosioni e lontananze, a un modello classico, quello della canzone, consegnata alla poesia italiana successiva sia dalla Scuola Siciliana, sia dagli Stilnovisti, insieme con altri chiari segnali e semantemi, configura un’altra stagione, che forse è più intrigante di quella precedente, posta appunto sotto il segno di quella che Ungaretti chiama “l’illusione”.
Adesso, il poeta si ritrova uno straniato sopravvissuto a tutte le precedenti esperienze e a tutte le attese, che si sono dimostrate nient’altro che inganni e visioni di incantesimi, ed è costretto a fare i conti con una esposizione senza scampo, irrefutabilmente personale, alle severe leggi dell’esistenza. Vorrebbe darsi delle spiegazioni, vorrebbe cercare di aggrapparsi a qualcosa di stabile e di sicuro, e deve, con strazio, verificare sulla sua pelle, attimo per attimo, che le spiegazioni e le certezze di un tempo erano sì valide, ma limitatamente a quegli aspetti e a quelle convenzioni, mentre attualmente non sono più attendibili e spendibili. Nella nuova condizione, è lui, è la sua sofferenza, è l’impossibilità di darsi una decrittazione del perché degli eventi e di sé stesso come evento impastato di angoscia, l’enigma da chiarire. E saggiamente accetta il tutto, perché è consapevole che il rifiuto e la ribellione non solo non riuscirebbero a scalfire neppure con un graffio la superficie di questa durissima situazione, ma rischierebbero di aggravarla. E ancora più saggiamente e laicamente si viene appropriando della negatività e dell’impossibilità come di una preziosa risorsa, assumendone quotidianamente dosi compatibili, per una mitridatizzazione del veleno che faccia da scudo contro altro veleno. Come nella composizione XXXVII (p. 59): “Frantumato nel tempo / ogni spazio riconduce l’assenza, /ed il sorriso puro della tua tenerezza / ha distanze repentine, sempre ricomposte / nelle finzioni che mi raffiguro. / Sei stata una passione, / ora sei gesto di estrema solitudine”.
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Ugo Piscopo
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