Bruno Galluccio : "La misura dello zero" – Giulio Einaudi Editore, 2015- pagg. 133 - € 12,50 -
Lobacevskij, Euclide, Newton, Talete, Heisenberg, Einstein, Pitagora, Galois, Gödel sono gli amati maestri del poeta-scienziato Bruno Galluccio, che li convoca nei versi della silloge “La misura dello zero”. Agli ultimi tre è dedicata la brevissima sezione “Matematici”: un trittico poetico di vibrata commozione ed ammirazione per il pensiero ed il destino di questi straordinari scienziati (il primo, Pitagora, famosissimo filosofo-scienziato dell’età classica) capaci di dare vita a strutture e sistemi rivoluzionari attraverso la loro potenza visionaria.
Sono, però, taciuti i poeti che pure prepotentemente spargono i loro echi in questi versi, come Pascoli con la sua vertigine cosmica tra “la meraviglia e il terrore” (pag.100) e il bisbiglio incessante dei suoi morti che abitano la memoria e la polvere, e forse ancora vivono, come ipotizza Galluccio, in prossimità di quel varco di infinite possibilità fra l’essere e il non essere, il cui simbolo, lo zero, è, come scrive il poeta, “un valore esatto che non si può raggiungere” (pag. 6). Dunque è possibile incontrare in questo strettissimo varco i non nati: “nessuna madre mai avuta/ e cosa significhi il quando/ culla sesso niente/ aria inferno di aria”; e perfino “quella che sarebbe potuta essere mia figlia/ sta correndo e mi chiama/ ancora indecisa se esistere”.
E c’è ancora quel Pascoli che tesse straordinarie corrispondenze fra cielo e terra inventando una nuova mitografia attraverso l’irrazionalità delle analogie, la lallazione infantile e l’onomatopea primitiva, allo scopo di recuperare l’innocenza e il sapere pre-verbale.
E, poi, il Leopardi della seconda stagione “filosofica”, che, pur esaltando la razionale conoscenza del Vero, tuttavia sottolinea anche la parallela caduta di rassicuranti riferimenti mentali e metafisici. Così Galluccio, riferendosi ad un’epoca di scienza già fondata su base razionale, in cui, però, non erano stati ancora inventati i formalismi della matematica, scrive: “un tempo dimostrazioni e formule/ venivano espresse solo in linguaggio naturale/ con la magia di adeguare la sintassi/ alle entità che albergavano in mente” (pag. 9).
Ma, sopra tutti, Proust, lo scrittore-poeta della memoria involontaria che riporta alla luce il passato fra lampi illuminanti e oblii. “Grazie all’oblio -come scrive Giovanni Macchia a proposito di Proust- noi possiamo ritrovare intermittentemente l’essere che noi fummo, perché bisogna perdere per cercare di conquistare nel tempo ciò che nel tempo viene perduto”. È lo stesso convincimento che anima Galluccio quando egli dà voce al racconto del suo passato: “chi ricorda è perduto/ ma domani nella sospensione della terra/ di questa penna e dolore per appuntare/ l’impossibilità del ricordo/ sarà proprio il segno dell’essere perduti”, pag. 90.
È importante annotare, intanto, la presenza del lemma variamente declinato “perdere”, che ritorna in questo testo una terza volta, per sottolineare come il lessico gallucciano abbondi in modo tanto sorprendente quanto significativo di termini costituenti una vasta area semantica relativa alle azioni dell’essere abbandonati, del perdersi, smarrirsi, che rivelano un “io” ferito e talvolta disordinato, certamente oscurato da molte ombre d’infelicità.
L’autobiografismo, è, di fatto, uno degli elementi dominanti in questa silloge anche là dove quest’ultima sembri esclusivamente parlare di teorie scientifiche e di dimensioni al di là del tempo e dello spazio dell’uomo, ma che infine all’uomo vengono ricondotte, se è vero che “quando la specie umana sarà estinta/ quell’insieme di sapere accumulato/ in voli e smarrimenti/ sarà disperso/ e l’universo non potrà sapere/ di essersi riassunto per un periodo limitato/ in una sua intima frazione”; e se è vero che l’infinito è un concetto elaborato dalla psiche, per cui “morire non è ricongiungersi all’infinito/ è abbandonarlo dopo avere saggiato/ questa idea potente” (pag. 79).
Si direbbe che Galluccio inventi un nuovo antropocentrismo: quello dell’uomo contemporaneo volto quasi spasmodicamente alla conoscenza degli enigmi della Realtà, sebbene sappia quest’ultima effimera e destinata, come lui, alla morte. È, forse, in questo atteggiamento che si può rintracciare la fierezza e la lucidità, tra i leggendari intervallia insaniae, del poeta latino Lucrezio che storna la paura della morte con la morte stessa. In questo senso non esiterei a definire Galluccio il nuovo Lucrezio della letteratura contemporanea.
Ma con una differenza sostanziale: ché, mentre Lucrezio tenta di spiegare i principi della filosofia epicurea “attraverso il canto suasivo delle Pieridi”, e la poesia rappresenta solo il dolce liquore capace di rendere meno amara una medicina forse sgradevole ma salutare; Galluccio, invece, stabilisce fra scienza e poesia un rapporto di reciproca influenza anche perché percepisce entrambe come un continuum mentale-linguistico in cui si fondono e confondono in virtù delle medesime leggi regolatrici della vita individuale come di quella universale.
A favore di questo strettissimo legame sembrano operare gli scienziati contemporanei, i quali hanno introdotto “simboli per ciò che non è noto/ e farne calcolo e accrescerne la potenza/ la dignità dell’incognita”, rendendo contigui i campi d’indagine della scienza e della poesia, forme di conoscenza entrambe gravitanti nella dimensione del “mistero”.
In un bellissimo testo a pag. 111, Galluccio, rappresentandosi in un anonimo scrittore che “ha appena finito il libro”, spiega la sovrapposizione del suo sentire poetico e scientifico con questi versi: “la memoria accoglie esperienze non vissute/ notte e astri conducono la loro battaglia” e, per quanto riguarda la resa linguistica con questi altri di poco successivi: “uno sciame il discorso che lo attraversa/ simboli di un’appartenenza simultanea/ gli strati multipli del linguaggio”; e, a pag.16, leggiamo: “è un passaggio al limite dell’immaginario/ scoprire anche il vuoto con le nostre parole”.
Proustiana, invece, è la struttura di un testo come “senti la terra delle parole” (pag. 27) un cui gerani e gelsomini rammemorano il profumo di altri gerani e gelsomini fioriti in passato attorno alla casa dell’infanzia evocata a pag. 64, in cui, come nella prosa del celebre romanziere francese, i ricordi sono paragonati a “frantumi che si radunano” ricomponendo “dettagli credibili”; e i giorni dell’infanzia, e la figura della madre – e, in un altro testo, della nonna- diventano lampi narrativi entro “le nebulose” della memoria.
Lo sguardo sul passato, appare quasi sempre doloroso: gelo, abbandono, smarrimento, perdita di sé sono le sensazioni più frequenti. Tra i ricordi sembra farsi maggiore spazio la figura di un familiare precocemente morto, e precipitato nel vuoto del quasi-oblio. Sebbene il ricordo, per la sua distanza temporale, non faccia più troppo male, il linguaggio inconscio della poesia riporta spesso alla superficie quell’esperienza attraverso il ricorrere di lemmi come “aria” e “vuoto”, sui quali lo spavento della memoria sembra restare in bilico, affacciandosi su quell’orribile e misteriosa attrazione, che è poi quella della morte.
L’elemento fisico del vuoto fa la sua apparizione nel secondo testo della silloge di Galluccio (pag. 6), e già in esso i dati esperienziali si fondono con quelli scientifici “il vuoto sempre un enigma e un mito”: così ha inizio il testo dove pure si legge “quel vuoto sembrava proprio/ lì fuori di casa in agguato/ un agguato lontano e incombente/ un allontanarsi da cieco”; ed infine nella terza ed ultima strofa: “oggi sappiamo che il vuoto non esiste/ ci sono ovunque fluttuazioni quantistiche”. Il termine “vuoto”, dunque, ha nella poesia gallucciana un triplice significato: esistenziale, simbolico e scientifico, come verrà confermato da altri testi successivi, in cui l’indagine dell’universo appare una proiezione di quella interiore, in una sorta di corrispondenza sapienziale che ricorda la Tavola Smeraldina ed il suo principio: “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, secondo un’unità che per Galluccio è di natura conoscitiva e strutturale, ma non religiosa, a meno che non si consideri l’accezione prima del verbo religare: mettere insieme.
Quando, infatti, alla fine dei tempi, le forme della vita avranno cessato di mettere in scena l’illudente spettacolo della varietà, a testimonianza della sostanziale unità, resteranno soltanto gli elementi più diffusi in natura, dalle stelle (i mattoni dell’universo) agli esseri più elementari: idrogeni, ossigeni, carbonii, come recita la stupefacente nudità del testo di copertina: “oppure tentati come in principio al caos/ non più cellule messaggi in DNA cifrati soltanto/ idrogeni ossigeni carbonii”.
Eppure l’universo di Galluccio non esclude possibilità, anche remote, riguardanti la dimensione psico-fisica e forse anche metafisica. Ecco allora che provvidenzialmente soccorre “la misura dello zero”. Di esso vengono date le seguenti definizioni: “lo zero è una funzione fantasma/ un valore esatto che non si può raggiungere” (pag.6); “il big bang risplende sulle equazioni/ come lo zero singolare/ come uno zero che non ha misura” (pag.8); “simbolo da eresia/ porre un numero al vuoto/ una misura” (pag.18) e, infine, a pag. 80, (sebbene sia una definizione indiretta) “porre un vincolo a due modi separati/ o porre a zero qualcosa/ per risolverla e farla brillare”.
Come dire che, a ridosso dello zero, germinano infinite possibilità, ipotesi, sogni, minimi gesti di bellezza, così che “il racconto che viviamo/ porge una mano che si sposta nei secoli (pag. 114); oppure “un palmo aperto” che “si sporge dal finestrino senza salutare/ forse per riconoscere il fascino del vento” (pag. 94); oppure il ricordo (pag. 196), che come “un’onda si alza nella zona remota del cervello/ si infiamma lungo la colonna vertebrale”, suscitando emozioni che sembravano sepolte nel buio dell’oblio. Si racconta, perfino, come leggiamo nel testo a pag.117, che dopo “questo tragitto/ che hai di fronte/ ci sia aria più netta e tagliente/ che lo scenario non sia quello che vedi/ ma un altro dotato di sovraimpressioni/ che i corpi abbiamo imparato/ siano davvero siano vivi”.
Anche la parola: quella poetica, quella onirica (che meraviglia l’immagine “dei volti che nei sogni si fanno luce”, pag. 129), l’altra parlata della memoria (“il filo del racconto diventava un cesello/ per collegare le persone trattenerle/ tenere insieme il tempo”, pag. 31) che sembrano cucire insieme la dimensione del tempo reale e immaginario, del passato e del presente, del nostro esistere nell’arco dei giorni e delle notti, mente intanto la vita fugge e ci approssima al mistero della morte.
Si tratta di brevi pause consolatorie, di piccole offerte votive da porgere ad un “io” comunque inquieto, che, accumula abbandoni “da entrambe le parti” (il corpo ed il tempo), pag. 81; che ha perduto l’ordine dello spazio euclideo, la sicurezza di Newton che “poteva prevedere/ le orbite di tutti i pianeti per un tempo indefinito”(mentre adesso “siamo nei tempi illuminati dall’incertezza”, pag.19) e che, tuttavia, continua ad esplorare per cercare di capire quella “tanta parte dell’esistente” che “si sottrae/ mentre nutre la nostra meraviglia”.
Tutto sommato, è questa meraviglia che proviene dal limite, come ha raccontato Leopardi nel celebre testo de L’infinito, a sostenere la fame e la sete di conoscenza dell’uomo; la stessa da cui sono sgorgati versi di incredibile bellezza come questi: “inizia la navigazione del tuo corpo/ le scapole sono isole dove mi dirigo/ salpando dall’attrazione della nuca” (pag.47) o: “da un gelo smisurato/ si esce con le mani di pietra/ e con un certo miraggio di bellezza” , pag. 55; o ancora: “ora legati al nucleo bellissimo delle ore”, pag. 89; e, soprattutto: “il cielo è diventato alto aspro di stelle” per la sua stupefacente musicalità favorita dalla triplice alternanza dei suoni vocalici della “a” e della “o”, pag. 40; e, naturalmente, moltissimi altri incastonati nei cento testi di questa silloge di Bruno Galluccio come oggetti preziosi: straordinarie invenzioni dell’orecchio e dell’immaginazione.
Un’ultima considerazione va fatta sul numero di questi testi che sono cento. Ora non mi sembra che ciò sia un caso: infatti il cento era il numero che i Pitagorici consideravano divino per eccellenza, perché dieci volte multiplo di dieci, il numero composto dall’Uno, cioè la Monade e lo Zero, cioè il Nulla. Esso veniva rappresentato con un triangolo equilatero di lato 4, come i quattro elementi cosmogonici. E, inoltre, è risultato della somma 1+2+3+4, indicanti il punto, la linea, il piano ed il volume.
Un numero, il 100, che aderisce perfettamente allo spirito ed alle intenzioni del poeta e scienziato Gallucci. Anche se si trattasse solo di una straordinaria coincidenza, sarebbe lo stesso una coincidenza molto prossima a quel tipo di sapienza a-logica così intrinseca alla poesia.
*
Franca Alaimo
Nessun commento:
Posta un commento