venerdì 1 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = VITO TAVERNA

Vito Taverna, Località Scandolaia 14 (Il cielo, il tempo, le parole), Archivio Atelier V. Venturi, Perugia, 2017, pp. 225 (con 14 acqueforti di Walter Valentini), Postfazione di Giorgio Linguaglossa

Vito Taverna mostra d’essere consapevole di stare nelle macerie del linguaggio. Macerie, frammenti, schegge che gli fanno correre il rischio di mandare in frantumi anche l’anima.
Che fare quando crolla il ponte del linguaggio fra l’io e gli altri, fra l’io e il mondo, per non tornare inermi allo sfarinamento della nostra carne elementare? Occorre costruirsi come Noè un’Arca di salvezza. Questa “arca nascosta” (“Zavorra”) Vito Taverna la possiede: è la lingua della sua poesia. E’ la sua parola poetica contro un nuovo “diluvio che travolge bestie e cose”. Con una Parola personalissima il poeta, a onta “della zavorra degli anni” e dei fatti accaduti, può approdare al monte di Ararat, ma affidando all’impeto dell’acqua del diluvio tutto ciò che – pur salvato – il poeta scopre non esser necessario: l’approdo all’Ararat è alla sua portata soltanto salvando la parola, la parola necessaria alla sua poesia. Una poesia, questa di Vito Taverna, che aspira a farsi “poesia totale” nella sua tridimensionalità metaforica e nella sua abilità di generare immagini di luce quasi a volere in ogni verso ri-fecondare la materia per farne un “suo” giardino di fiori-simboli, un eden di “crochi e crochi a mazzi” su cui aliti, incontaminato, il maggio nel candore del “sussurro di rose e di lavande”:
“Le ricordassi almeno una per una/e come, a poco a poco, m’immergevo/in quel rigoglio che mi ancorava /alla terra e al suo fulgore./Placide sere d’ombre trasparenti/e d’aria tanto fina/da parere una trina di profumi,/quasi parlasse tutto il mondo agreste:/un sussurro di rose e di lavande,/così, di primo maggio, appena deste,/e crochi e crochi a mazzi./Alle spalle, la casa, che m’incombe/con il suo silenzio.” Una materia inerte fecondata da un’aura elegiaco-crepuscolare cui poter attingere il prodigio di “un verso eterno” da fare alitare sulle perdite, sui distacchi, sulle lotte, sui viaggi senza ritorni di tanti cuori amati, sulla permanenza della poesia nella «presenza-della-assenza», dalla morte di Midori amata. E’ una poesia questa di Vito Taverna, com’è nel Canzoniere di Saba, che va interpretata, per coglierne tutto il profumo e il misterioso respiro interno, penetrando le parole nella loro dinamica implicazione tra esiti formali e sviluppi dell’anima poetica, tra implicazioni etiche legate alla natura contemplata e temi di ispirazione vitale. Una poesia tridimensionale per il fitto intreccio che Vito Taverna riesce a compiere saldando intimamente le tre componenti fondamentali della sua ars poetica: la biografia, la psicologia e l’estetica; ovvero, la tridimensionalità storica, psicologica ed estetica. Altri aspetti importanti della poesia taverniana sono stati colti e svelati da Giorgio Linguaglossa, con vastità di dottrina e severa competenza. Ne derivano le colonne perìptere del tempio poetico di Vito Taverna. Un tempio di poesia nel quale, secondo i canoni della grecità, fluttuano di bellezza e armonia di forme, la carne viva e il cuore incorrotto del poeta, in una intatta “rugiada che vibra di gocce arcobaleno”. Ove la rugiada nei versi taverniani è correlativo oggettivo di purezza e levità originarie, come le sue parole, icastiche, dirette, necessarie, che il poeta pronuncia senza balbettìi, quasi a riaffermare la forza ri-generatrice della autentica parola di poesia quando cadendo nella zolla la feconda: qui, nella sua grecità contemporanea, Vito Taverna ci riporta agli sfarzi della lirica greca, come quella del Ritsos che scrive: “Scrivo un verso. Scrivo il mondo./ Esisto, esiste il mondo…”. Sicché anche in Parole, come già successe nelle sue Poesie di novembre, dalla estremità del mignolo di Vito Taverna sembra che d’un tratto da ogni verso scorra un fiume gonfio d’acqua, d’una verde acqua profonda.
Le poesie di novembre vogliono essere questo: un canto elegiaco sulla fine dell’autunno della vita, una meditazione sul tramonto delle «cose». Il mistero dell’esistenza si cela e si svela nel dettaglio di quell’oggetto che credevamo di conoscere e che davamo per scontato. Il mistero si presenta nella forma del frammento; anche il frammento si dà nella veste del dettaglio. Quello che ci si presenta all’improvviso è un mistero che fa ingresso nel nostro quotidiano, che so, un ricordo che non volevamo ricordare, un lapsus, un errore di dizione, un refuso di una parola che non volevamo scrivere, in una parola, il mistero delle cose semplici che si rivelano in un attimo è l’Altro per l’altro, uno scambio di «persone», di «cose», una metonimia, una sineddoche, «maschere» di un «teatro degli Artigianelli» dove si recita sempre la solita «scena», il solito canovaccio dello stupore di fronte al mistero dell’esistenza.
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Gino Rago

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