SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCO DIONESALVI
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FRANCO DIONESALVI : "Base centrale" - Ed. Arcipelago Itaca . 2020 - pag. 68 - € 12,50
Nella premessa a "Base centrale" Franco Dionesalvi ripercorre le vicende della propria alterazione psichica. Quale la ragione di questa sommessa cronistoria? Non certo per rievocare le fasi della sua malattia, né tantomeno la sofferenza di due anni di apprensioni e consulti, di attacchi di panico, di micro-crisi epilettiche succedutisi “alla media di due al giorno”. Quel che gli sta a cuore è testimoniare che in lui ciò che è vivo, dopo il recupero delle proprie energie, è la poesia. Egli è consapevole che in lui agiscono “due spinte opposte, forse entrambe vere: sentire che se una cosa non la ricordi l’hai persa per sempre; percepire che se di una azione non hai alcuna memoria ti viene donata una seconda volta”. Da qui la necessità di riappropriarsi del proprio vissuto senza, per questo, abbandonarsi al massimo tormento di lasciarsi prendere dalla ricerca della parola come accadeva a “quei quattro pa-ranoici impalpabili / veggenti” che “almanaccavano di vocabolari / si struggevano ansimavano del niente”. Come per Eliot e Montale, il tessuto emotivo e il ripristino dei risvolti memorali non si esauriscono in sé stessi, diventano la fonte essenziale e insostituibile per palesare il proprio disagio esistenziale. Fin dalle prime raccolte, e valga come esempio per tutte: La fragola e il pianoforte, (Marra editore, 1980), in lui la parola poetica, epurata da qualsiasi orpello letterario, assolve a un carattere istitutivo-rivelativo, nel senso indicato da Heidegger, per portare alla luce ciò che è nascosto, ciò che si cela o, al momento, è stato seppellito, in parte o in toto, nei meandri della psiche. Da qui il continuo scandaglio interiore; da qui l’insistente lavorio per rammendare la rete smagliata della me-moria che la malattia ha lasciato dietro di sé. Ricomporre il tempo perduto è l’unica via per superare questa nuova forma di “sindrome di Stendhal”. Più facile a dirsi che a farsi. Come superare l’impasse? Come riportare alla luce le tracce del passato? Come consentire di far affiorare dal profondo l’inten-sità emotiva “senza limare nulla”? La scalata non è agevole. Secondo la logica matteblanciana ciò è possibile attraverso un continuo processo introspettivo che consente agli eventi del passato di ritor-nare alla luce ordinati in una serie infinita di insiemi corrispondenti alle reazioni a catena tra le emo-zioni e gli sviluppi delle rifrangenze concettuali. Nel ritorno del rimosso infatti il flusso della co-scienza e il principio di simmetria, connotandosi tra di loro, consentono alla realtà esterna di corri-spondere a quella interna, palesando e potenziando, come scrive Virginia Wolf, “l’incoscienza come peculiare caratteristica del proprio status”. In questo Svevo è stato un maestro. Ne è la prova il gioco delle alternanze e delle contrapposizioni dei suoi personaggi. Di volta in volta la “nevrosi ossessiva” individua, nella forma della scrittura, le possibili vie per scoprire e denudare il fondo oscuro che sovrasta le loro azioni. Questo processo di svelamento e, nello stesso tempo, di palesi occultamenti, non è altro che una continua “dissimulazione onesta”. La verità, o presunta tale, viene sempre diffe-rita. Passa da una situazione all’altra senza mai trovare il modo di sfuggire al dolore. L’io ne esce sempre deluso e sempre più soggetto ai propri meccanismi interiori. Non così in Franco Dionesalvi. In lui la scrittura poetica non risiede nella ricerca di un altro da sé ma nel tentativo di ritrovare, negli anfratti del proprio inconscio, le istanze più profonde del proprio esserci. Attraverso la ricomposi-zione frammentata dei ricordi, il poeta ricostruisce il proprio vissuto. Ogni minimo aspetto del pas-sato, prelevato dalla eliotiana land desolata o, meglio, dalla sua personale “valle del pensiero”, as-sume un proprio intimo significato: diventa cioè una figura metaforica, capace di dare nuova luce ai trascorsi avvenimenti. È questa l’unica rivalsa dell’interiorità da contrapporre, tra sogno e veglia, alla dura realtà. Sorretto dalla voce del profondo il poeta riesce a superare il disagio delle proprie sconfitte e a proiettare il proprio io al di là dei ripetitivi e convenzionali accadimenti della ordinaria realtà del quotidiano. Ciò gli consente di evitare di specchiarsi nel tormento della “malattia della parola” come era costume di “quei quattro paranoici impalpabili / veggenti” che “almanaccavano di vocabolari / si struggevano ansimavano del niente”. Si legga in proposito la poesia Dall’alto. Fin dall’inizio della composizione, con rapidi ma intensi passaggi, il poeta disegna, nella limpida stesura delle immagini, la scena della creazione. L’“evento” è rappresentato da un succedersi di figure; ma, via via che si procede nella lettura, si comprende che il climax ascendente non è altro che un sogno. La contrappo-sizione tra desiderio e realtà è sottolineata dall’azione dei verbi: al passato per certificare la grandezza della creazione, al presente per confessare la precarietà della condizione umana. “Il Creatore dispensò terra a piene mani / e le lasciò sgranarsi sopra il mare / senza limare nulla. / L’insediamento umano / lo riconosci da rette spianature / triangoli compassi e simili ossessioni. // È così soffice calcare queste nuvole / bianchissime ariose vellutate / ci affondi i piedi e poi rimbalzi. / Questo tappeto di nubi / è sovente un richiamo irrefrenabile / per l’angelo custode: / lui salta, ondeggia, corre / ed io laggiù / non trovo più uno straccio di lavoro”. Non diversamente avviene in Il cielo, dove il divario tra gli opposti cieli è concepito come risultato della storia umana. “Il cielo è sempre serio / nelle capitali del nord, / alto solenne e grigio / favorisce l’opportuno profilarsi / ai palazzi agli affari. // È così spudorato / il sole nel mio sud, / è così basso il cielo / che cerco di celarti / l’esplosione dei fiori del mio manto”. Il dettato poetico, libero da ogni impaccio, è chiaro e semplice; parla con la voce e l’intelligenza del cuore che sono sempre presenti nel prosieguo di tutta la raccolta che, per semplicità, possiamo sud-dividere in tre sezioni. Nella prima ritroviamo alcune poesie già presenti in altre raccolte. Quale la ragione di questa riproposizione? Hanno la funzione di attivare il processo di rimemorazione per disincagliare i ricordi dai lacci in cui le micro-crisi epilettiche li hanno relegati. Ciò spiega lo spaziare degli eventi memoriali da un luogo all’altro senza mai trovare l’appiglio del conforto sperato o il rimpianto di ciò che è stato e che è difficile riportare indietro. Si legga, in proposito, Le scarpe. L’in-diretto riferimento alle sette paia di scarpe ho consumato dei versi carducciani viene immediatamente superato da un ritornante dolente sentimento dell’esistenza che si dilata in un’ampia suggestione psi-chica, prima di racchiudersi nell’invocazione di una fuggevole ma inappagata constatazione del de-siderio. Lo stesso accade ne I volti. Il gioco di corrispondenza tra interno ed esterno, tra mente e corpo verso cui il poeta “ora a questo ora a quello” muove, diventa sintomo di smarrimento e di sgomento che si specchia in una condizione più generale di solitudine. Nella seconda sezione dominano, in tutta la loro estensione, le memorie della prima adolescenza, in particolare di un luogo ben preciso: Potame, una frazione del comune di Domanico, collocato a oltre 1000 metri d’altitudine sull’appennino cala-bro. Un luogo del cuore, dove natura e uomini si specchiano l’uno nell’altro con profondità e sempli-cità di gesti e sentimenti. Senza sosta, corrono i ricordi di zia Maria, dell’amico Angelo, delle fan-ciulle amate e dei “nudi odori” che incensavano le vane attese dall’alba al tramonto. Sembra di rivi-vere una favola sospesa nel tempo. Ogni traccia ne apre una nuova; è un continuo spiraglio aperto sul passato, un passato condito “di cipolle selvatiche e pomodori” e di cicorie che odorano “di fresco le fragole”. Insomma è tutto un procedere sulla linea del tempo come nella ballata di François Villon, dove l’interrogativo “mais où sont les neiges d’antan?” è una finestra aperta sul presente. Un presente che si snoda per prati e foreste, per colline e pendii tra “canti d’altri tempi e d’altre genti”. Il succedersi dei ricordi hanno il profumo della lontananza che il ritmo martellante dei versi scandisce con grande maestria, soprattutto nella terza sezione. In Cinque innesti, infatti, il rigenerarsi del regno della natura, in particolare delle piante, fa da contraltare alle ragioni del proprio sentimento poetico come accade nell’affresco Kerouac e il campionario di Netflix e in Risvegli dove, “nel vuoto pneumatico” della mente, si cela la consapevolezza dell’inanità di ricercare nuovi “segni svelamenti distillazioni di sen-tenza” per abbandonarsi a “vivere ogni giorno / come se fosse il primo”. Quello di Dionesalvi non è però un arretrare o accettare l’incertezza e la precarietà del presente. La condizione moderna ha la-sciato dietro di sé soltanto rovine che è difficile poter restaurare in un unico insieme. Non resta che vivere la cognizione del dolore così come ci è stata tramandata e ritrovare, tra anfratti e detriti, le occasioni perdute. Il loro profumo resta nelle tracce degli antichi valori ancora esistenti nella nostra coscienza. Nella derelitta condizione epocale ad essi dobbiamo tendere per non smarrirci, consapevoli che non sono totalmente perduti ma fanno parte di noi e ne illuminano costantemente, anche nelle difficoltà più ardue, il cammino. Questo il compito della poesia che, come scrive Nelo Risi, “di per sé non conta nulla, conta ciò che sta dietro la poesia e che in segreto l’alimenta”. Consapevolezza che è sempre viva e costante nella ricerca poetica di Franco Dionesalvi, dove si confrontano e si dibattono costantemente i valori “transazionali” con l’espressivo mondo sotterraneo della parola, sempre im-pregnato di sogni e di desideri che guardano ai valori eterni dell’uomo.
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GERARDO PEDICINI
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